13 luglio 2012

Walter Siti, il grande romanziere italiano

L'Italia di oggi, senza pudori né reticenze, ma neppure senza quella dose di empatia umana (e in fondo disperata) che sembra essere l'unica zattera a cui aggrapparsi per tentare di non sprofondare nella disperazione. Resistere non serve a niente, l'ultimo romanzo di Walter Siti che esce per Rizzoli (e lo stesso autore ci  informa che alla Mondadori lo avevano apostrofato con un perentorio "Sei tornato a scrivere un libro per froci"), è un’opera - come direbbe Carlo Lucarelli - che fa paura, per quanto inclemente è lo sguardo sul nostro presente e sulle sue inenarrabili brutture. Ma è anche un'opera straordinaria, che arriva al livello del precedente Troppi paradisi, e forse lo supera, e colloca Siti sul trono, indiscusso per quanto forse neppure tanto piacevole, di Grande romanziere italiano, con buona pace della pletora di premi letterari e del loro estenuante corredo di liquori, bancarelle e campielli. "Non si scrive quello che si vuole - leggiamo nelle prime pagine - si scrive solo quello che si può". E quello che Siti riesce a fare è raccontare, con il suo stile scorticante e al tempo stesso affettuoso, i lati oscuri dell'economia globale - persa in quel mare nero fatto di derivati, cds, opzioni al ribasso - scegliendo di costruire la sua storia intorno a un personaggio pragmaticamente sitiano (e quindi versione aggiornata della lezione di Pasolini, di cui Siti è attento curatore dell'opera omnia) come il giovane (ma moralmente anziano) e colluso Tommaso Aricò.




Il contesto, e la scelta strutturale della narrazione, sono altre tracce inequivoche della mano di Siti, vero cantore degli anni della televisione di massa e della società cresciuta all'ombra del tubo catodico ma capace, con un'operazione che fa pensare a David Foster Wallace (ossia al più grande), di non porsi nella posizione giudicante, ma di calarsi completamente nel sistema, come sempre in prima persona e con tanto di nome e cognome, fino a diventare un cronista che tribunali poco lungimiranti potrebbero perfino accusare di favoreggiamento. Ma più che l'ultima parte del romanzo, quella dedicata in maniera esplicita a raccontare come la criminalità organizzata si sia infiltrata in tutti i settori dell'economia legale e come il Sistema (per citare Saviano, ma qui, occorre dirlo, siamo molto lontani dalla poetica dello scrittore campano, che dal punto di vista artistico non è neppure lontanamente paragonabile a Walter Siti, con buona pace di tutti) abbia fondamentalmente corroso quasi tutto, compresi persino i cuori umani. Qui però, ed ecco dove brilla il talento dello scrittore modenese, la (potenziale) redenzione parte dall'andare vicinissimo a questi stessi cuori e qui si colloca la figura di Tommaso: orrendo, sgradevole, criminale, ma anche umano come solo un ex bambino obeso (raccontato da uno scrittore gay che in casa ostenta ritratti di giovani culturisti) può essere. "La finanza - scrive Siti - ha surrogato l'obesità nel funzionare come antidoto al senso di colpa, come intercapedine tra sé e i desideri troppo personali; anche il denaro, come il cibo non racconta che se stesso: è anonimo e non distingue tra buoni e cattivi". Tutto, e la giustificazione di tutto (compreso il politically correct e l'eticamente corretto), parte da qui. E, come recita il titolo del libro, di fronte a questo sistema "resistere non serve a niente".



A ulteriore (seppur non necessaria) conferma della grandezza abnorme del romanzo, lo scrittore pone un epilogo pirandelliano nel quale il narratore Walter Siti parla con il suo personaggio Tommaso Aricò usando queste parole: "Forse sei il mio stunt-man, quello che esegue per me le scene pericolose… un prototipo della mutazione…o forse, più in profondità, sei il mio vendicatore". E poco oltre la vertigine si fa, se possibile, più acuta. "Dichiarerò che sei un frutto della mia immaginazione… questo è il vantaggio dei romanzi… ti ho delegato a vivere temi che sono i miei… in pratica ho scritto un romanzo per procura". Il risultato è da togliere il fiato, in tutti i sensi. E se in America la querelle sul Grande romanziere a stelle e strisce vive spesso di diatribe, in Italia possiamo dire di avere trovato la risposta, almeno a tutt'oggi.

10 luglio 2012

Il difficile tentativo di mr. Barnes

Un romanzo troppo caricato di suggestioni, spunti filosofici, situazioni classiche della storia della letteratura. Questo pare, in ultima analisi Il senso di una fine (Einaudi), l’ultima opera dello scrittore inglese Julian Barnes, accolto da una parte della critica come un capolavoro e premiato con il prestigioso Man Booker Prize 2011. E se le ambizioni e molte delle forme tipiche della grande opera ci sono tutte, a essere meno all’altezza delle attese è proprio la realizzazione del testo, la sua coerenza interna, la sua tensione verso il risultato a cui, almeno apparentemente, ambisce. Franco Cordelli sulla Lettura del Corriere della Sera acutamente (come quasi sempre, va detto) nota il tentativo di Barnes, attraverso il suo narratore Tony Webster, alfiere di una rivendicata medietà, di convincere i lettori di non essere di fronte a un libro “difficile”, ma solo alla storia di una persona come tante altre. Operazione che, cosciente o meno, fa a pugni con tutti gli altri ingredienti della storia che alla fine – e il finale è davvero sconcertante sotto tanti punti di vista, dei quali la “credibilità” della trama è certamente il meno rilevante – si rivela una complessa riflessione sul tempo, sulla memoria e sul modo in cui raccontiamo la nostra vita, in primo luogo a noi stessi (questo forse è il concetto più interessante di tutto l’anomalo monologo di Webster).

Intenti certamente “alti” e meritori, ma che si perdono nel mare (o nel bicchiere, non c’è poi così tanta differenza) di un contenitore letterario, di un oggetto letterario che non riesce a dare un adeguato palcoscenico a queste riflessioni, chissà se per il desiderio di “piacere” il più possibile (e quindi vendere, cosa che è tutt’altro che una colpa) oppure solo per la difficoltà di tenere insieme in una lunghezza comunque contenuta, una serie di tematiche che sono da parecchio tempo al centro della riflessione filosofica occidentale. E così la tragica vicenda del giovane Adrian Finn, uno “troppo intelligente” per sopravvivere, che canonicamente si impicca a 22 anni (quante volte avranno detto la stessa cosa anche per David Foster Wallace, che però non era un personaggio da romanzo) dopo aver gettato alcune sentenze illuminanti sul senso della Storia, somiglia tristemente a un’occasione persa dopo il buon attacco del libro. Tanto da far pensare, più che ai grandi racconti filosofici cari alla letteratura anglosassone, a una riedizione in salsa più intellettualistica di un romanzo come Anime alla deriva di Richard Mason, caso letterario alla fine del secolo scorso ma che la critica ha sempre, e forse ragionevolmente, mostrato nelle sue numerose debolezze.

Sia chiaro, Il senso di una fine, oltre ad avere una bellissima copertina nell’edizione italiana, resta un romanzo quasi sempre godibile, con alcuni momenti brillanti quando Tony Webster rilegge la lettera piena di odio che, da ragazzo, aveva scritto ad Adrian che si era legato alla sua ex, Veronica. Nella sgradevolezza del bonario narratore si vede un barlume di talento e di sprezzatura vera, non mediata, molto interessante. Che però rischia di diluirsi in fretta, sciolta dall’acqua poco più che distillata degli altri snodi chiave del romanzo, cervellotico nel pretendere risposte tanto dal suo protagonista quanto dal lettore su questioni che erano, al netto del testo – unico riferimento possibile – decisamente oscure. Così se i personaggi, Veronica in primis, agiscono in base a sottintesi – ovviamente decisi dall’autore – che si rivelano fondamentalmente inesistenti, viene da pensare che la colpa non sia del carattere complesso (che è un bene) del suo principale personaggio femminile, ma in ultima analisi dell’autore stesso. Che forse ha tentato di dire troppo, senza trovare la giusta forma in cui farlo. E a metà strada tra il bestseller e il capolavoro si rischia di perdersi in una terra di nessuno che ricorda la periferia di Londra dove nel romanzo si svolgono alcune delle scene supposte-chiave della trama.