28 febbraio 2014

Jonathan Littell, un testimone davanti a Bacon

Francis Bacon è uno dei pittori contemporanei più citati e riconoscibili, ma a ben guardare le sue opere, figurative per certi versi in modo molto più classico di quanto sia comunemente percepito, restano degli enigmi più vasti e celano, oltre all’evidente senso di angoscia e di carne, una storia più profonda, che attinge a piene mani alla tradizione e che si può riassumere con una sola parola, spesso usata da Bacon per titolare i propri quadri: pittura. Di questo parla Trittico, la raccolta di tre studi (si noti l’osservanza baconiana di titolo e sottotitolo), firmata da Jonathan Littell, lo scrittore newyorkese divenuto celebre in tutto il mondo per il romanzo sull’Olocausto “Le benevole”. Pubblicato in Italia da Einaudi, in una versione sovradimensionata della collana Frontiere, il libro è la storia di uno sguardo, freddo ma comunque empatico, sul lavoro di Bacon, che parte dall’opera che ha dato il via alla carriera del pittore – i Tre studi di figure ai piedi di una crocifissione del 1944, trittico che ha conquistato un posto indelebile nella storia dell’arte contemporanea anche se, con il passare degli anni, la sua forza sconvolgente si è in parte perduta – e arriva all’unico possibile punto d’approdo: la creazione di una “grande figura”. Parola che è la radice del termine “figurativo” e che Littell ha il coraggio di associare – in termini ben motivati ma comunque piuttosto arditi - anche alla ricerca di un mostro sacro dell’Action Painting come Mark Rothko. Pittore che Bacon ufficialmente detestava, ma di cui, nota l’occhio dello scrittore, spesso si ritrova una potente eco negli sfondi bicromi dei dipinti dell’irlandese.

Littell, che scrive anche pagine splendide su Las Meninas di Velasquez, racconta Bacon da un punto di vista che resta quello di uno scrittore, e in più di un caso le analisi sulle “motivazioni” del pittore sembrano essere quasi delle confessioni autobiografiche, che qualcuno potrebbe anche considerare non particolarmente originali (e per questo, probabilmente, dotate di una discreta percentuale di verità). “Per lui – scrive Littell – la pittura non era una protesta contro qualcosa, ma un modo per affrontare la giornata, il modo migliore e più affascinante che ci fosse, ed era anche un modo, più segreto, nonostante venisse poi esposto alla vista di tutti, per sbarazzarsi dei propri fantasmi più intimi”. Chiarissimo, e viene in mente un altro grande irlandese dallo sguardo severo, Samuel Beckett. Più intrigante Littel lo diventa però quando si concentra sul senso ultimo dell’opera di Bacon: “La figura è l’oggetto dipinto nel quadro; il soggetto, come in tutta la pittura, e non solo in quella astratta, è la figura in sé”. Il nuomeno pittorico dunque, che fa da sfondo – si dovrebbe dire da ombra se pensassimo in termini di ortodossia baconiana, quelle splendide e spaventose ombre che sgorgano o, meglio, sfuggono dai personaggi dipinti – alla manifestazione di ciò che per Littell è in fondo il modo in cui pensa la pittura. Difficile immaginare un compito più ambizioso e straziante.


Alcuni appassionati e qualificati osservatori di Francis Bacon hanno visto nel saggio di Littell poca attenzione alla dimensione più carnale – nel senso letterale dell’aggettivo riferito alla carne – del lavoro del pittore. Ma Littell, e la sua bibliografia lo conferma, somiglia a quel “testimone indifferente” che lo scrittore identifica come figura ricorrente nelle opere di Bacon, e come tale mantiene un distacco sebbene, a differenza del personaggio, non distoglie lo sguardo e anzi lo esaspera chirurgicamente davanti ai dipinti. In fondo è solo un altro modo di essere appassionati. E non solo i dipinti, ottimamente riprodotti a colori in grande quantità nel libro, sono passati sotto la lente di Littell, ma anche molte fotografie: su tutte quella che ritrae un giovane Bacon dandy insieme al suo compagno George Dyer a Soho nel 1964. L’analisi dello scrittore è magistrale, ma quello che più conta è la testimonianza di un amore che, in ultima analisi, sembrava da sempre destinato a una fine tragica e alla conseguente ossessione di Bacon. “E’ stata l’incapacità da parte di Dyer – scrive Littell in un passaggio chiave – di imporsi allo sguardo di Bacon come individuo da amare anziché come doppio da dipingere che l’ha condotto alla morte”. 

25 febbraio 2014

Edna O'Brien ovvero la verità, ti prego, sull'amore

Se è vero, come è vero, che nella valutazione critica di un artista le opere dovrebbero essere tutto e la vita privata niente, è anche altrettanto vero che molto spesso la seconda sconfina prepotentemente nel terreno delle prime, fino a creare una massa che risulta effettivamente molto difficile scindere, anche per i critici meno pruriginosi. Ci sono però momenti nei quali è lo stesso artista che compie volutamente la sovrapposizione dei territori, e nell'arte visuale brilla la parola "autoritratto", facendo ufficialmente spazio alla propria messa in mostra. Per gli scrittori è il momento dell'autobiografia, in qualche modo terreno d'armistizio - almeno in apparenza, ma non è peregrino pensare che in realtà quello autobiografico sia anche il più cruento dei campi di battaglia - tra se stessi e la fiction. A ben guardare, però, le armi che vengono utilizzate sono le stesse e il prodotto finale, il libro, potrebbe differire dalle opere dello stesso autore solo per l'uso di un pronome in prima persona anziché in terza. Ciò non toglie nulla al fascino dell'autobiografia - e spesso anche a quello delle biografie "indirizzate" dal soggetto della narrazione, come nel caso del meraviglioso profilo di Philip Roth firmato da Claudia Pierpont, Roth Unbound - e, anzi, diventa un ulteriore elemento intrigante su cui riflettere. E nel caso di Country Girl, l'autobiografia della scrittrice irlandese Edna O'Brien, che in Italia è stata pubblicata da Elliot, l'esito è sorprendente e felice, indipendentemente dalla percentuale di "verità", qualunque cosa voglia dire questa parola decisamente consunta dall'uso smodato che se ne fa, contenuta nelle sue 350 pagine abbondanti.

E' indubbio che la vita della O'Brien, classe 1930, sia piena di eventi che, con poca fantasia giornalistica, verrebbe automatico definire rocamboleschi (un solo esempio, il corteggiamento con Robert Mitchum, imperdibile come un film poliziesco), ma è altrettanto evidente come la scrittrice non giochi (più di tanto) con queste storie, e che la forza del libro stia sostanzialmente altrove, lontano dalle feste piene di celebrità e lontano anche dai libri. Il discorso vale anche per Roth (che per inciso di Edna O'Brien è da sempre un sostenitore e nel libro fa anche una lusinghiera apparizione): molta della vita degli scrittori (ma vale per chiunque, pensate al caso Agassi) accade prima o addirittura nonostante i loro libri, la bibliografia è un dato di fatto che però, in certe occasioni, mostra la corda. E tra queste occasioni spiccano le buone autobiografie. O'Brien racconta con grazia noncurante della sua inesausta, ma non cieca, ricerca di amore, e trova un tono che è al tempo stesso confidenziale, sereno eppure tragico, anche se solo sotto traccia. Raccontando del matrimonio, poi finito male, con lo scrittore Ernest Gébler, scrive, a proposito del pranzo nuziale: "Fu in quell'occasione che assaggiai per la prima volta lo champagne e mi piacque subito, forse più del dovuto". Ci vuole del coraggio per porre in epigrafe della storia della propria vita una frase del centometrista americano Tyson Gay, ma ci vuole del talento assoluto per creare una frase che in 20 parole sia anche una sintesi (ovviamente segreta nella sua perfezione) di tutto il libro. Mi piacque subito, forse più del dovuto.

Viene in mente l'epifanico titolo di una raccolta di poesie di Auden: La verità, vi prego, sull'amore. Anche questa potrebbe essere la domanda fondamentale che Country Girl solleva, dando risposte sempre parziali, tra le quali però ne spicca una di James Joyce a una sua amante alla fine di un'avventura: "Non potrà mai essere tra noi. Scrivilo". Ecco, il corto circuito è scattato, la scrittura sostituisce la vita, anzi crea le proprie condizioni lontano dalla vita: è una vertigine che diventa ancora più intensa quando ci ricordiamo che stiamo leggendo un'opera letteraria nella quale l'autrice prova a raccontare la sua di vita. Semplicemente perfetto. Così come perfetta è la scena in cui una O'Brien a pezzi dopo avere provato l'Lsd chiede di non ricevere visite, ma nonostante tutto ecco che nella sua stanza d'albergo si palesano prima Marguerite Duras con delle supposte e un tè al lime, poi il regista Peter Brook per lavorare a una sceneggiatura. "Dopo venne Samuel Beckett". Questa volta le parole sono solo quattro, ma il miracolo è, se possibile ancora più potente. E non importa se anche fosse un'allucinazione da acido, ma quando in un libro si riesce a fare entrare la storia della letteratura in una stanza d'hotel usando quattro sole parole, allora quello che abbiamo di fronte non è un libro come tutti gli altri. 

Così la luce che, dopo tanti amori, ma anche tante tragedie e momenti di vuoto e solitudine, si accende alla fine del libro sembra irradiare tutte le pagine precedenti con la tenerezza di una consapevolezza solo apparentemente scontata. Bella o brutta, diciamo tutti con Edna O'Brien, questa è la mia vita. Avere il coraggio di guardarla senza paraocchi, ma con affetto e tolleranza, sarebbe già un grande risultato. Come ha scritto Jonathan Franzen a proposito dei racconti di Alice Munro - altra scrittrice che, in absentia, pare però aleggiare spesso intorno alle parole della O'Brien - "si finisce per perdonare tutti e non condannare nessuno". 

09 febbraio 2014

Le confessioni di F.W. Grobes

Un racconto
Extended version del testo pubblicato su Diario nel 2008

Ho visto Kilgore Trout inseguire il suo creatore chiedendogli di farlo ringiovanire. Ho visto i corvi di Van Gogh riprendere fiato su una talea a Central Park in un pomeriggio di ottobre insolitamente afoso. Ho visto Josef K. passeggiare stralunato nei pressi della stazione centrale di Arnhem, e la sua figura esile si perdeva tra le centinaia di biciclette parcheggiate nelle rastrelliere. Ho sentito la voce di Don Chisciotte blaterare qualcosa in uno strano francese mentre cercava di imbarcarsi su una nave in partenza da Tolone e diretta in Martinica. Se non ricordo male tentava di farsi passare per un archeologo...

- Aspetti professore. Tutto questo è straordinario, ma prima deve spiegare chi è lei.

Ha ragione, giovanotto, ogni tanto mi perdo nei miei pensieri. Allora, mi chiamo F. W. Grobes, critico d'arte e letteratura, nato a Praga nel 1928 a pochi isolati dalla casa paterna di Kafka. Ho lasciato la Boemia con i miei familiari negli anni Trenta e oggi vivo ad Hannover, in un appartamentino nel cuore del quartiere turco. C'è rumore a tutte le ore del giorno e della notte, e questo mi rassicura. Ma, insomma, la cosa che devo oggi confessare per la prima volta è che da quando avevo 17 anni io parlo con le opere d'arte.

- Ci spieghi meglio, professore.

I quadri mi parlano. I personaggi dipinti, intendo. E come loro quelli dei romanzi, delle fotografie, del cinema. Qualche volta ho sentito pure la voce di un edificio. Mi capita di incontrarli per strada, questi personaggi, e loro in qualche modo sanno che io li posso riconoscere. E allora parlano, si lasciano andare. Guardi che non è sempre divertente. Provi lei a sopportare le confessioni culinarie di Emma Bovary o a fare quattro passi intorno alla Serpentine con il Marat sanguinante di Jacques-Louis David! Le giuro che non è stato facile all'inizio, ma poi mi ci sono abituato. E oggi che l’età si fa sentire, e con lei la solitudine ottuagenaria, stare senza la loro compagnia sarebbe molto doloroso.

Tutto è cominciato poco dopo la fine della guerra, a Parigi. Avevano appena riaperto il Louvre e io, che per anni avevo potuto solo immaginare la bellezza dei quadri attraverso delle riproduzioni quasi sempre di bassa lega, io non credevo a quello che i miei occhi potevano vedere nei saloni del museo. Credo tuttora che nel corridoio italiano ci sia la più alta densità di bellezza di ogni tempo. Beh forse Omero o la settima di Beethoven vorrebbero dire la loro in proposito, e magari anche a ragione... però quel corridoio... Insomma lo attraverso tutto e sono estasiato, Raffaello, Leonardo, Veronese, la morte della Vergine di Caravaggio. Poi entro in una saletta più piccola, quasi in penombra, dove sono conservati i dipinti di Ingres. Quante volte avevo ammirato le sue donne al bagno. Quante volte, glielo devo confessare, ci avevo pure fantasticato su, ero solo un adolescente in fondo, privo di qualunque educazione sentimentale che non fosse la solidarietà diffidente ispirata dal male comune della guerra. Erano bellissime queste bagnanti, morbide, sorridenti. E mentre me ne sto lì imbambolato e vagamente eccitato a rimirare il bagno turco, ecco che la ragazza che sta proprio al centro del tondo, quella con i capelli chiari e lo sguardo più serio, si volta verso di me e mi parla. Le risparmio tutta la manfrina sullo stupore e lo spaesamento che mi ha colto, credo che se lo possa immaginare. Io, un qualsiasi liceale emigrato, me ne stavo al Louvre a parlare con una bagnante di Ingres. Si poteva finire in manicomio per molto meno.

- E poi?

Credi che sia semplice starsene qui sempre nuda con le braccia conserte e l’espressione corrucciata mentre la gente lì fuori ci osserva elegante in redingote e pelliccia? mi ha detto. Ti assicuro che non è così. Io non sono come tutte le mie compagne, ha continuato, lo vedi, no? Queste qui suonano, si abbracciano, si lasciano andare in pose sensuali. Io, no, io sto fuori dal coro, quasi fossi un elemento estraneo o misterioso. Chissà che diavolo aveva in mente quel pittore quando mi ha immaginata. Come ti chiami, le ho chiesto quasi balbettando. Non lo so, ma ho scelto di chiamarmi Eugenia. E io sono diventato matto? E cosa ne posso sapere io. Non credere però di essere l’unico che parla con i quadri, qui tutti lo fanno. E tu rispondi a tutti? No – ha sorriso – quella è la tua dote. Il museo stava chiudendo. Hai dei franchi in tasca? mi ha chiesto Eugenia. Sì qualcosa. Aspettami sotto l’arco del Carousel tra venti minuti. Come? Fidati. Ti prego. Ho bisogno di un caffè da troppo tempo.

Era una sera fredda e limpida di novembre, con poca gente in giro. L’ho vista arrivare da lontano, con un abito nero e una sciarpa colorata. Siamo andati in un bistrot abbastanza squallido di Rue St. Honore ed Eugenia mi ha raccontato quello che accade nelle stanze del museo la sera, quando il mondo rimane chiuso fuori. E’ divertente, mi ha detto, appena spengono le luci il cavallo rampante di Napoleone si lascia cadere e il generale, che diventerà imperatore solo due stanze più in là, spesso ruzzola a terra in maniera goffa, maledicendo il povero animale con parolacce che io neppure conoscevo. Non è propriamente simpatico, però ha un certo fascino. E c’è sempre qualcuno, di solito uno degli ospiti della cena in casa Levi, che gli dà una mano a rialzarsi. Anche il padre degli Orazi, che a noi ragazze fa sempre un po’ paura, alla sera arriva esausto e lascia cadere le spade a terra prima di stare lungamente ad asciugarsi la fronte con il suo mantello rosso. Nessuno lo prende in giro, anche perché è molto permaloso e una volta ha minacciato con la spada il povero pierrot di Watteau. E tu, le ho chiesto io. Faccio delle passeggiate nel museo, mi fermo ad accarezzare le ali di Amore e a salutare Psiche, talvolta guardo fuori dalle vetrate e vedo la città farsi poco a poco più scura. Non so perché ma questo mi mette nostalgia. Poi non so fare altro che tornare al posto che mi hanno assegnato e rimettermi a braccia conserte.

Eugenia l’ho rivista tante altre volte, tornando al Louvre. E le devo confessare, perdoni il mio sentimentalismo senile, di essere legato a lei in modo speciale, in fondo è stata la prima. Con il passare degli anni ho incontrato così tante storie che un po’ si confondono nella memoria. C’era quel Marlow insopportabilmente querulo e il povero Achab che era completamente pazzo anche lontano dal Pequod e dalla Balena, c’era la dolcissima ninfa di Novalis e c’era Kirillov, furioso con Dostoevskij per avere fatto di lui, persona estremamente lucida e mite, un nichilista suicida. Ma per fortuna chi muore nell’arte di solito non muore sul serio, perché la gente se lo ricorda soprattutto per come ha vissuto e per quello che ha rappresentato. E poi, finché qualcuno continua a leggerli o ad ammirarli in un quadro, loro continuano a vivere, indipendentemente dal destino, talvolta davvero beffardo e ingrato, che un immaginifico artista ha dovuto imporgli. Lo sa, caro ragazzo, il mondo è pieno di Josef K. che se ne vanno in giro sempre un po’ spaesati. Uno per ogni lettore del Processo, uno per ogni saggio scritto su di lui, e uno in più oggi, perché quando tornerà al suo giornale e scriverà qualcosa di questo incontro con me anche lei creerà un nuovo Josef, che qualche lettore, le auguro sinceramente di averne, spedirà in giro per il mondo. E chissà che poi un giorno anche lui non venga a bussare alla mia porta dicendomi quello che mi dicono sempre i personaggi più tormentati: Tutti sanno chi è Josef K. ma chi sa chi sono io?

Il mio amico e coetaneo Carlos Fuentes una volta mi ha detto, o forse l’ha scritto in qualche libro, non me lo ricordo, che Don Chisciotte compie la più grande rivoluzione della letteratura quando da lettore si scopre letto. Ha ragione, è il momento storico in cui i personaggi prendono consapevolezza e cominciano a vivere un’altra vita, accanto alla gabbia dorata dell’arte che li ha inventati e li sostiene. Le devo confessare che la prima volta che ho incontrato il Chisciotte, passeggiavamo noi soli per le vie dell’Alfama a Lisbona in un primo pomeriggio caldissimo, sono rimasto sorpreso dalla sua lucidità. Me l’ero sempre figurato geniale e folle come lo aveva immaginato pure Orson Welles, e quel film mancato mi creda è uno grandi sogni della cinematografia mondiale, e mi sono dovuto ricredere. In fondo amico Grobes, mi ha detto compito, dentro un’opera d’arte si vive con una certa tristezza. Solo che capitano dei momenti nei quali riesci a dimenticare la fissità eterna della tua condizione nella superiore bellezza del mondo che ti circonda e che ti rappresenta e che tu rappresenti. E’ una questione di complessità e di specchi continui, siamo parte di un ingranaggio, più grande dei miei mostruosi mulini, che ci costringe e al tempo stesso libera. Se c’è qualcosa in cui questo vecchio hidalgo crede davvero, mio caro, è la complessità dell’arte. Come una vera religione non la si può capire, ma solo, se si ha fede, venerarla.

- Professor Grobes, mi dica qualcosa di Shakespeare.


Ah ragazzo mio, sapesse quanti Bardi ci sono in circolazione. Hanno scritto tante di quelle cose su di lui, di cui in fondo sappiamo praticamente nulla. Ne ho incontrate parecchie varianti, per lo più incentrate sugli studi classici di Hazlitt, ma quella più interessante era uno Scexpir che vive grazie, se non ricordo male, a un’unica citazione in un libro di fantasia. Però ho incontrato il principe Amleto, ahimè una sola volta. Ero a New York all’inizio del 1947 quando scoprì che W. H. Auden teneva delle conferenze su Shakespeare e ci andai. La sera in cui il poeta, enorme e goffo con un megafono in mano per farsi udire nella sala colma e rumorosa, parlava del principe di Danimarca mi ritrovai un po’ sorpreso a scoprire che la tragedia era stata definita un insuccesso artistico da T. S. Eliot e che Amleto era distrutto dalla propria immaginazione, non aveva il senso di una ragione che giustificasse la sua esistenza e che Ofelia era una stupida ragazza repressa, credo che Auden usò proprio queste parole. Piuttosto sgomento, stavo rimuginando su queste valutazioni quando il giovane seduto accanto a me, che anni dopo avrei scoperto non assomigliare né a Laurence Olivier né tanto meno a Kenneth Branagh, si presentò. Ovviamente era lui, il principe. Tutto quello che dice questo poeta, mi disse con grande educazione, è vero. Però qualcosa gli sfugge. Le mie contraddizioni, o per lo meno quelle che mostro in scena, sono il mio essere. Se non ci fossero sarei forse Giulio Cesare o il principe Harry. Io invece sono Amleto, esisto grazie a quelle imperfezioni e assurdità. E lì risiede il mio mito. Senza mitologia farei fatica a sopportare tanta cupezza. E Ofelia era solo una donna, gentile. Lei, Grobes, si è mai fermato a pensare dove risiede davvero tutta la forza delle donne? Io credo stia nell’impossibilità che abbiamo di capire anche solo la metà dei loro pensieri. Ofelia è, come tutti noi, una proiezione misteriosa di qualcosa, è come deve essere. Mi perdoni, ora, ma devo andare. Aspetti, gli ho gridato mentre lasciava la sala, e Shakespeare, e Laerte, e sua madre... e tutto il resto. E’ tornato indietro, e mi guardava negli occhi. Il resto, mi ha detto, nella migliore delle ipotesi è mancia. Più tardi, sul taxi che mi riportava nel mio alloggio, ho trovato un ritaglio di giornale con la pubblicità di una qualche apparecchiatura per l’udito. Lo slogan, davvero efficace, recitava: il resto è silenzio.


Leonardo Merlini
© Kilgore Magazine

05 febbraio 2014

Sia Lode ora a una Città di Fama - Un personal essay

Il saggio pubblicato su Minima&Moralia 

1.
Lo skyline lo si affronta subito, sull'Airtrain che unisce i terminal dell'aeroporto JFK: è lì, chiarissimo nel controluce che sagoma, con la sua evidenza sfumata dalle nuvole. L'Empire State Building marca il proprio territorio e non ammette rivali, la Liberty Tower è solo una periferia della percezione, alta sì, ma distante dal cuore di una linea di iconicità che si staglia precisa prima nella testa di chi arriva a New York, piuttosto che nella effettiva percezione visiva dell'occasione. Come in un gioco di filosofie che si specchiano, la potenza, ossia l'idea di un panorama costruita pazientemente in anni di applicazione alla cultura di massa, prevale senza fatica sulla limitata portata dell'atto, condannato a una definizione di confini che lo rende automaticamente poco interessante. Così non è un caso, anzi è la manifestazione delle leggi di Harold Bloom[1], che alcuni giorni dopo tra gli scaffali di Strand Books trovi una copia autografa e scontata di How Literature saved my Life di David Shields, uno scrittore e critico che da anni si interroga sulla incommensurabilità tra il linguaggio e l'esperienza. Tradotto, tra l'arte e l'esistenza, quindi tra ciò per cui vale la pena vivere e ciò che dovrebbe essere questa cosa chiamata "realtà"... Potenza e atto di una settimana a New York[2], già racchiusi nella prima occhiata alla città, gettata da un ponte alla Arthur Miller, pochi minuti dopo aver superato i test d'ingresso dell'Immigration degli Stati Uniti. Prima che le cose succedano, prima che l'atto si manifesti, la potenza ha già giocato, e stravinto, la sua partita. Affannarsi, dunque, non vale la pena.

Poi, in un modo che ogni volta mi lascia basito testimone di un ennesimo miracolo, i fatti accadono, in un battibaleno. Così sul volo Delta che mi riporta a Milano, appena finito il vegetarian meal puntualmente fornitomi dalla compagnia - molto prima che agli altri passeggeri, in virtù della precedenza che va educatamente riservata alle categorie protette - mentre in cuffia sto ascoltando una canzone dei R.E.M. interpretata da Thom Yorke, nel libro di Shields mi imbatto, per l'ennesima volta, ma in questo caso la scossa è di magnitudo poderosa, in una serie di frasi che so con certezza essere state scritte solo perché io le leggessi, perché mi fornissero l'interpretazione, lasca finché volete, ma univoca, della possibilità di senso - perdonatemi l'eccesso, ma è di questo che voglio parlare - di tutte le cose, compresa New York, dalla rampa del Guggenheim al negozio di specialità italiane di Francesco "Frank" Caputo, che senza falsa modestia, mi ha detto che la sua home made mozzarella è la più famosa della città, e forse anche di tutti gli Stati Uniti. Citando il giovane poeta e studioso Ben Lerner, Shields mi ricorda che la letteratura è l'altro lato di uno specchio, che possiamo interpretare solo grazie al riflesso della nostra lettura. Ma questo riflesso ci permette di prestare attenzione a noi stessi, di esperire la nostra stessa esperienza che, aggiungo io, altrimenti resta inesplicabile, un aborto, un ingranaggio senza applicazione né utilità, un cappotto sulla spiaggia di Coney Island in pieno agosto. Al tempo stesso, e nello specifico si parla di una poesia di John Ashberry, la vera letteratura resta altro da noi, incisa nel punto più lontano dello specchio. You have it but you don't have it / You miss it, it misses you / You miss each other[3]... Benvenuti a casa mia, dove ogni porta conduce in due stanze diverse al tempo stesso, egualmente immaginarie e reali. Come una città-mondo che, ingenuamente, mi ostino a chiamare "New York".


2.
La mattina presto, quando il jet-lag perde il controllo e mi abbandona a una totale incertezza percettiva, le strade di Carrol Gardens sono luminose e fredde. Molti negozi sono ancora chiusi, ma un barbiere è già al lavoro con almeno un paio di clienti nel salone, mentre tre operai apparentemente russofoni discutono con una certa animazione, ma senza animosità, davanti a una chiesa cattolica. Ho in mano la mia copia di Roth Unbound[4], la nuova biografia dello scrittore di Newark e ancora non so che, due giorni dopo più o meno, il vento gelido che soffia dall'Hudson River mi respingerà letteralmente via dalla sponda del West Side, impedendomi di gettare uno sguardo vagamente morboso su quel New Jersey che tanto ha significato per il buon Philip, lasciandomi così una volta di più solo la mia immaginazione, ben istruita dai racconti rothiani, ma senza quell'aggancio alla "realtà" che in fondo mi ostino, con dabbenaggine donchisciottesca, a cercare di raggiungere e, soprattutto, codificare. Mi torna ancora in soccorso Shields - una specie di doppelanger, per dirla con lui e con la mia megalomania - e la sua Reality Hunger[5] che si è fatta manifesto (mi verrebbe da dire futurista, ma perché di questo andrò a parlare al Guggenheim) sfruttando citazioni altrui, creando, una volta di più qualcosa che ha per me l'evidenza della "verità", ma che deriva dall'accostamento, e qui si si potrebbe anche spendere la parola "dadaista" senza vergognarsi troppo, di una serie di apocrifi che, sommati e giustapposti, conducono lo sperduto giornalista alla rivelazione impudica dell'originalità. E quindi quando chiedo un tè e un muffin al cioccolato nella caffetteria Brooklyn Bread - dove le commesse parlano tra loro in spagnolo e sono decisamente diffidenti nei miei confronti, pur senza perdere un centimetro di gentilezza (ma con la mia abitudinarietà nei giorni successivi sono certo di averle almeno un po' conquistate) - ho la sensazione di compiere una azione reale, il che, al tempo stesso, mi gratifica e mi terrorizza. La temperatura infernale dell'infuso, che incautamente cerco di assaggiare appena seduto al mio tavolo, ricorderà però subito alla mia lingua che i livelli di realtà sono un tema interessante, ma talvolta doloroso. Dalla mattina dopo solo succo d'arancia.


3.
La trilogia di New York di Paul Auster, che un po' tautologicamente è l'unico testo di fiction che mi sono portato in viaggio[6], si apre con un telefono che squilla nella notte. Sul taxi che attraversa il Manhattan Bridge, guidato senza tassametro attivo da un indiano al tempo stesso spregiudicato e timido, non è squillato nessun telefono. Ma la sensazione che provo quando mi trovo faccia a faccia con i grattacieli del distretto finanziario illuminati in maniera del tutto innaturale, eppure così precisa, ha la stessa evidenza di quella chiamata cui Quinn alla fine decide di rispondere inventandosi una nuova identità. Da quella prospettiva notturna, sopraelevata e aggettante, respiro a pieni polmoni l'odore dolciastro e appiccicoso della fantascienza, il gusto proustiano di una madeleine che ho sognato di intingere nel tè per tutta la vita (e ci ho provato più di una volta, ma senza epifanie, probabilmente perché sbagliavo a decodificare l'oggetto della transizione mnemonica) e che adesso assaporo, nella irrefrenabile vaghezza di un attimo in movimento, che è insieme scoperta e deja-vu. Mi sembra, dalla mia prospettiva pervicacemente provinciale, di comprendere il significato della parola "futuro", ma è una comprensione che nasce già mediata dal peso strutturale della consapevolezza che sia un approdo banale e semplicistico. Per un attimo però quel futuro si è librato sotto di me, libero come un verso di Eliot, sempre quel verso di Eliot[7] buono per tutti i ponti del mondo, benché ambientato solo sul London Bridge, che nella mia ostinazione mi capiterà di declamare con voce sommessa nel sotterrano di Strand nella mia personale interpretazione dell'inglese dalla Waste Land. Poco prima mi ero imbattuto tra i banchi della literary non fiction, nella versione peluche di Kurt Vonnegut, e la cosa curiosa è che io lo avevo riconosciuto, il che testimonia sì la perizia di chi ha realizzato il gadget, ma pure, e in modo piuttosto chiaro che:

a) la professione giornalistica ha ridotto drasticamente la mia capacità di genuino stupore

b) è molto probabile che in me ci sia qualcosa che non va, e che la colpa potrebbe essere, almeno in parte, della letteratura.

Nonostante il titolo di Shields, infatti, è evidente che la letteratura non salva la vita di nessuno (e lo stesso critico lo ammette)[8] e che anzi, in molte situazioni, è un fardello da portarsi addosso come l'uomo bianco di Kipling, abbandonato in una giungla ostile nella quale le buone maniere britanniche hanno perso la loro rassicurante certezza, schiacciate dalla rabbia visionaria di un colonnello Kurtz qualunque che predica verità indecifrabili e che, se solo potesse, non esiterebbe un attimo ad applicare il fuoco alla stessa Biblioteca di Babele, forse anche a ragione. Ma perso nella notte newyorkese, dopo aver aspettato per mezz'ora al freddo di essere ammesso nel ristorante cinese più in voga del momento[9], ciò che avevo imparato dai libri, da quelli di Remarque e di Robert Lowell, da Miranda July, naturalmente da Philip Dick e perfino da Olivier Adam (citare un francese nella notte di New York ha qualcosa di iconoclasta che ancora titilla il mio ego infantile, anche se ormai l’era di George W. Bush sembra lontana anni luce), era la mia unica ancora di salvezza, l'unica speranza di comprensione, per cui, mentre guardavo rapito quell'inenarrabile casino architettonico, che non avrei più rivisto in quel modo nei giorni successivi, mi sono accorto di essermi messo segretamente a pregare lo spirito impenitente di Nathan Zuckerman, chiedendo a lui di rassicurarmi, di restituirmi - dall'alto della sua grandezza di personaggio di fiction - un briciolo di normalità, un attimo di appercezione, una pillola di cinismo che fosse antidoto efficace al morso vipereo di tanta bellezza. In due, su quel taxi, abbiamo guardato Medusa negli occhi - e abbiamo guardato, con altrettanto stupore, i nostri stessi occhi che reciprocamente si riconoscevano nella notte - e non ne siamo stati pietrificati, forse per buona sorte, forse per intrinseco coraggio, chissà, forse perché, temerari, avevamo in realtà già vissuto mille volte quel momento. Probabilmente in un libro, o quantomeno nella sua proiezione interiore, un'ombra simile a quelle che rendevano arbitrarie le percezioni dei poveri cristi filosofici incatenati per l'eternità alla Caverna del primo grande mentitore idealista. Uno scrittore, per l'appunto. Anche se Platone, come ogni duro che si rispetti, probabilmente non ballava.

Ma sul cadavere della Gorgone, in quel breve e infinito istante di distinzione e unità, noi abbiamo danzato per sempre, certi che le luci di Lower Manhattan, dove ho scelto di non tornare nelle mie giornate di nomadismo urbano, non si sarebbero spente mai più (e che avremmo vissuto in eterno, ovviamente, ma questo lo pensa chiunque e parlarne in toni semplicistici non è interessante). Per sempre lassù, scriveva David, l'altro, quello di cui mi sono spesso sentito (come tutti direbbe Walter Siti) una sorta di alter ego. Ed ecco che mi rendo conto che pure io ho trattenuto il fiato, mentre sorvolavamo l'immagine warholiana dell'idealtipo della metropoli moderna (il contemporaneo, con le sue risapute asprezze, in certi campi non abita più qui, guarda ad Oriente), come se il ponte non fosse altro che il trampolino dal quale quel ragazzino si è affacciato un giorno, e da cui continua ad affacciarsi, senza mai saltare[10].


4.
Dalla biografia di Roth apprendo che, da giovane, lo scrittore in certe serate di cameratismo maschile divorava anche "una mezza dozzina di bagel". Poi, tra parentesi, l'autrice nota che lui ci ha tenuto a precisare che, all'epoca, i bagel non erano grandi come adesso. Altrove vengo informato (con una certa dose di autocompiacimento conseguente, ndr) che l'adolescente Philip prevedeva in un questionario che in futuro avrebbe svolto la professione di "giornalista" e che il college dei suoi desideri si chiamava "Northwestern". La parentesi, che subito accorre, precisa che in realtà Roth non sapeva nulla di questa scuola, solo che gli piaceva il nome. Una terza parentesi creativa contempla la presenza dell'avvenente Betty Powell nascosta sotto il letto nel dormitorio maschile del futuro romanziere... Insomma, mentre negli spazi ufficiali si svolge il rito formale e accademico della biografia, la vita di Philip Roth, quella che lui deve aver percepito di avere effettivamente vissuto (quindi quella che per lui, o quantomeno per i suoi ricordi di uomo maturo, è stata la vita vera) ci viene proposta in sordina, stretta tra quei caratteri pudichi a forma di mani che tendono a restringere e contenere, neanche fossero quel colonnato infame del Bernini che per Giulio Carlo Argan stringeva in una morsa di controllo e repressione le folle cattoliche adunate in piazza San Pietro a Roma...

 Dunque le informazioni, quelle che smuovono i fondali, quelle che "esistono"[11], si trovano ai margini, e il lettore è quasi invitato a trascurarle, come se fossero solo facezie. Ma David Foster Wallace – ovviamente è lui il secondo David di cui si parla qui –  potrebbe replicare, e lo ha fatto, investendo una grande fetta della propria vita e tagliando freneticamente il suo romanzo totale per ridurlo a poco più di mille pagine, che la facezia è per sua stessa natura infinita[12] e che il mondo, la splendida e impossibile antinomia della Ragione di Kant, trova la propria possibilità di senso forse SOLO tra parentesi, nell'angolo del trascurabile, dietro il banco dove corre a nascondersi il bambino timido insopportabilmente vessato dai bulli. Luoghi che, come la letteratura, sono talmente specifici e intimi per il singolo, da non poter fare altro che diventare universali, pertanto sconfinati, infiniti. Parentesi che contengono tutto e di più, parentesi che ho scelto di aprire arrivando, solo e profano, a New York sulla linea A della Subway in un pomeriggio di sole radente. E dentro queste parentesi ho potuto toccare il mondo contenuto nell'uovo di cristallo che avevo perso mesi a fissare, e che credevo di conoscere in ogni suo piccolo dettaglio, e ne parlavo come se realmente lo conoscessi. Solo che, miopia o miniaturizzazione, non ne coglievo le parentesi, e quindi in "realtà" non avevo ancora visto nulla. Come l'impostore di Dick, nell'arco di cinque giorni ho capito che io ero quello che, passando davanti alla sede orwelliana dei testimoni di Geova a Dumbo - un enorme palazzo stalinizzante con la scritta "WATCHTOWER" sul tetto - si è messo a ricordare l’omonimo racconto di J.G. Ballard[13] nel quale gli alieni osservavano gli umani da delle misteriose torri pendenti dal cielo, senza fare nulla, senza neppure farsi vedere, solo... essendoci. Ho capito che di notte a Williamsburg il vento freddo fuori e i diner anni Cinquanta dentro erano evidenti metafore della possibilità postmoderna di essere felici, e in questo quadro (chiaramente una copia di Nighthawks di Hopper) ero, per una volta, attore. Ho capito che i newyorkesi erano come me è che io ero i newyorkesi, tutti loro, indistintamente, insieme. Le parentesi erano fatte di Rosenquist e formaggio fritto, bottiglie di San Pellegrino e J-walking, lunghe dita femminili in un bar a Cobble Hill e proiezioni della Città di vetro, viste dalla terrazza del New Museum oppure dal locale di proprietà del musicista Moby[14], bagel alla cipolla fraintesi è comprati per colazione e la poliziotta che, un lunedì mattina spruzzato di neve, mi ha sorriso su President St. a Brooklyn dicendomi: "First taste of winter". Le parentesi, per una volta, erano fatte di me. 

(Io sono il corvo Joe, ripetono i Baustelle in cuffia, mentre trafiggo da solo il cuore della metropolitana, nell'ora di punta di un giorno qualunque. Faccio spavento).


5.
E' domenica quando attraverso a piedi il ponte di Brooklyn, una mattina di sole nella quale il lampo d'acciaio di Frank Gehry è signore assoluto (seppur sfuggente) dell'altra sponda dell'Hudson. Di qui invece le scale di pietra, strette, e la necessità di arrivare a salirle solo dopo avere raccontato un pezzo di sé a qualcun altro, con intimità e meno reticenza, tra vortici di foglie innescati dal vento e desiderio di assomigliare a quei mattoni del ponte, fotografie di un altro tempo che persiste nella memoria rinnovata, parole materiche disarmanti. Come accade per le scalinate penitenziali dei devoti, sul ponte si può approdare soltanto con il cappello in mano e fare contrito. Perché lassù non sai che cosa capiterà, e, se fortunati, si potrà pure incontrare l'America.

"Molte razze, molti popoli, molte nazioni - scrive un ispirato D.H. Lawrence a proposito di Moby Dick - al riparo della bandiera a Stelle e Strisce. Uomini segnati dalle strisce di molti scudisci. A volte fino a veder le stelle. In una nave folle, al comando di un folle capitano, impegnati in una folle e fanatica caccia. [...] È un'impresa pratica, estremamente pratica nel suo funzionamento. L'industria americana!"[15].

È questo ciò che mi arriva, dritto alla mascella, quando sbuco sotto la luce perfetta del disteso mezzogiorno: un jab di folla e slogan religiosi, e magliette stampate per l'occasione, e gente che vuole dire la sua al mondo, da uno dei luoghi simbolo del mondo. Sono organizzati, in gruppi subito riconoscibili, e ciascuno brandisce la propria appartenenza con orgoglio, e un sottile alito di fastidio verso quelle altrui, peraltro ben mascherato sotto i sorrisi e la comunanza confessionale. Si muovono con determinazione, al tempo stesso felici (in modo ingenuo e quasi commovente, per certi versi) e incuranti dell'assoluta anti-ordinarietà dello scenario della loro sfilata domenicale. Come se tutto fosse dovuto, come se la loro fede, da sola, bastasse a garantire quella sensazione di cittadinanza che è la cifra e la chimera più profonda di questo luogo. Precisi nel marcare il territorio, inappuntabili nel rivendicare il proprio spazio vitale, vivi, e consapevoli di esserlo, al limite della tracotanza. Come se fosse facile, come se fosse naturale... Certo, Achab tarda a farsi vedere sul ponte (arriverà quando io meno me lo aspetto), ma la sua ciurma è schierata, pronta una volta di più a soggiogare il mondo con la forza di una convinzione[16]. Così, circa a metà del ponte, dopo che una striscia burlona di vernice ha regalato qualcosa da raccontare ai miei pantaloni, mi rendo conto che in mezzo a tutti questi credenti è inevitabile che si aggiri anche un Mickey Sabbath[17], furtivamente osceno, con indosso una giacca a vento troppo larga, sbiadita, e in tasca ancora il ricordo delle mutandine dell'ultima conquista immaginaria. Inevitabile, perché è  l'America a esigerlo, con la sua magnifica ossessione per le possibilità. Non l'ho incontrato - statisticamente era improbabile - ma sono certo di averlo sentito bisbigliare alle mie spalle un commento ammirato sulle tette di una manifestante afroamericana particolarmente infervorata. E lei, perfettamente a proprio agio, le ha scosse con più entusiasmo, mentre intonava il ritornello di un inno al Signore, guardando Sabbath dritto negli occhi.

God bless you all.
God bless New York City.



6.
Questa storia finisce, come era prevedibile, dove era cominciata, a fissare la luce precisa del pomeriggio sul treno velocissimo che unisce i terminal dell'aeroporto Kennedy. Vedo degli stagni e un aereo che, decollando, li sorvola con gentilezza, vedo dei francesi che ondeggiano pericolosamente a ogni fermata del convoglio, vedo me stesso riflesso nei finestrini e la mia espressione mi è indecifrabile, come se fosse sospesa sopra qualcosa che non c'è, definitivamente condannata all'incertezza. Sono da solo, come raramente mi era capitato di essere in questi giorni americani[18] e mi sento come un qualunque Alessandro Magno, euforico e al tempo stesso perso davanti alla grandezza del mondo e all'ardimento dell'impresa. Uso la strategia dell'ordinario, mi concentro su ogni passo, su ogni aspetto tecnico della procedura d'imbarco, con la conseguenza di dilatare a dismisura la consapevolezza della fine di qualcosa. Il volo, per quanto segnato da turbolenze di lunga durata, sarà solo un dettaglio, quasi una presa in giro, e nell'istante in cui prenderò in mano lo spazzolino da denti, ormai sui cieli italiani, mi sembrerà di non essere mai arrivato a New York, e mi ricorderò dei sogni fatti negli anni Novanta in cui questo nome aveva di volta in volta immagini diverse, proiezioni di coscienza e di paure, fantasie che neanche Bruno Schulz. Come se niente… 

E ad aggravare questa sensazione arriveranno anche i miei “no” alle domande di parenti e amici: "Hai visto Ground Zero? E il Rockefeller Center? Sei salito sull'Empire? (Lo so, la Lonely Planet diceva che era obbligatorio, lo so) E la Statua della Libertà?" L'ho vista, risponderò. L'ho vista, piccola ma inconfondibile, dalla fermata della metro di Smith St., e in mezzo a noi c'era una grata di metallo, cui mi sono aggrappato più di una volta, cercando di fermare la città e di abbracciarne ogni sfumatura, dalle cartoline agli angoli più spigolosi, amandole tutte nello stesso modo infantile, inutile e doloroso. E quando mi chiederanno, perché lo faranno, "Ma allora che cosa hai visto?", per questa volta non tirerò fuori la storia del non-lo-so-neppure-io o dell'in-fondo-New-York-non-esiste, oppure è-solo-uno-stato-d'animo, l'ho già detto e scritto troppe volte, mi sto annoiando da solo. No, questa volta non parlerò di come sia difficile vedere qualunque cosa o di come in fondo la filosofia ci insegni che non possiamo mai dire che cosa abbiamo visto "davvero". Basta. Ci hai rotto i coglioni. Hanno ragione (almeno in parte). Stavolta dirò che nelle mie percezioni confuse e nei miei dubbi c'ero io, che le mie storie e le mie incertezze nascondono (e svelano) la mia vita, e che proprio per la loro stranezza frastagliata sono l'unica prova del fatto che io di lì, in mezzo a giorni di novembre quasi sempre ventosi e assolati, ci sono passato realmente. Dirò anche, nonostante Italo Calvino e le sue città che si modellano sull'occhio e soprattutto sul racconto di Marco Polo, che mi terrò molti segreti, tutti quei ricordi di cui non ho scritto, e di cui inevitabilmente, a un certo livello conscio, (non) mi dimenticherò. Perché lì dentro, oltre a un'idea chiamata New York ci sono (stato) anch'io.
  
Ancora una cosa

Quando stiamo per entrare alla Neue Gallery il cielo si fa cupo e si alza il vento. Del resto è Vienna quella che adesso attraversiamo, non più un angolo dell'Upper East Side. Vienna fine Ottocento, un posto dove le cose accadevano e dove neppure il perbenismo asburgico riusciva a spegnere le braci oltraggiose del desiderio. È giusto quindi che ad accoglierci ci siano almeno un paio di Egon Schiele, e che all'ingresso dello shop facciano bella mostra di sé occhiali da sole ispirati al dottor Freud. Ma l'emozione più intensa non sarà la splendida libreria a darmela e neppure il rinomato caffè che mette in coda tanti raffinati newyorchesi. Sarà qualcosa di più scontato, sarà Kandinsky, visto e rivisto, amato e poi dimenticato, una specie di vecchio amico d'infanzia reincontrato per caso, se credete nel caso, molti anni dopo. Più vecchio, un po' imbolsito, ma per me sempre così inspiegabilmente evidente. Il buon vecchio Vassilij, come se gli ultimi vent'anni non fossero mai passati. Ho paura di pensare di essere venuto a New York (anche) per questo...

In ogni caso i temporali, prima o poi, passano, e all’uscita dalla Neue una signora ci invita ad affrettarci a entrare a Central Park perché c'è ancora da vedere un frammento di tramonto sopra il lago intitolato a Jackie Kennedy[19]. E allora corriamo.





[1] E anche di Jonathan Lethem, visto che ho cercato per giorni di diventare parte dell'anima di Brooklyn, con una determinazione cocciuta che mi ha fatto pensare che magari il quartiere fosse spaventato dalla mia nitida sensazione di sentirmi a casa su Court St. e pure passando di notte sotto le impalcature da film noir della metropolitana sopraelevata a Smith St.

[2] E per estensione di tutti i miei ultimi 25 anni, passati a pensare l'America, passati ad aspettare, drogandomi follemente di rappresentazioni, il momento in cui sarebbe successo qualcosa, quella cosa che è Hemingway e Philip Roth, Wes Anderson e Billy Crystal, Joan Didion e Blue Train, la birra di Pollock, l’ingresso al MoMA e la mia personale religione che ruota intorno alle grandi tele di Mark Rothko, le lacrime durante il volo di andata guardando un film di fantascienza con tanto di robot giganti, e le ragazze, una in particolare, che fanno acquisti da Uniqlo sulla Fifth Avenue, tutto questo insieme, in un unico momento espanso, l'esplosione nucleare nel suo momento perfetto, solo deflagrazione e spettacolo, prima dello strazio inalienabile del fall out...

[3] John Ashberry, Paradoxes and Oxymorons

[4] Claudia Roth Pierpont, Roth Unbound  - A Writer and his Books, Farrar Straus and Giroux.
Il libro l’ho acquistato la mattina di sabato in una libreria molto cool a Dumbo. La sera, ritrovandomi con l’amico che viaggiava con me, ne ho ricevuta in regalo da lui un’altra copia. Nessun dubbio che i libri scelgano noi con una certa perseveranza.

[5] Fame di realtà, edito in Italia da Fazi. Un testo di teoria letteraria che ha portato un’aria nuova.

[6] Nei giorni successivi andrò a spasso per Park Slope con la segreta speranza di incrociare Auster o, per lo meno, il suo personaggio Quinn, ossia uno che finge di essere l'investigatore privato che nel libro risponde al nome di Paul Auster, circolo piuttosto intrigante che si chiuderà in maniera del tutto imprevista, io ormai tornato a Milano senza aver coronato l'incontro, con una dedica per me sul suo ultimo libro che le mani eleganti di un'amica hanno consegnato proprio allo scrittore, come documentato da una foto fatta con l'iPhone.

[7] Stetson! You who were with me in the ships at Mylae

[8] Ovviamente è altrettanto chiaro che, a un prezzo che a molti potrebbe apparire troppo alto, in un'altra delle molteplici dimensioni dell'universo delle SuperStringhe la salva effettivamente, almeno la mia di vita, e forse anche quella dell'ottimo David - chissà che, attraverso vie piuttosto imperscrutabili non lo abbia fatto anche per un altro David, che nel 2008 ha deciso di avere visto abbastanza - fornendoci una chiave interpretativa per il completo caos di una qualunque ordinaria giornata, quotidianamente folle come Achab che attraversa frenetico il ponte del Pequod, battendo ostinatamente il proprio arto artificiale.

[9] Essendo pure venerdì - qualunque cosa significasse a quel punto della mia giornata iniziata 23 ore prima in un'alba ordinaria della provincia milanese - l'attesa per le vie di Chinatown era stata in fondo più che ragionevole.

[10] (Qualcosa che assomiglia all'immortalità). Cfr. David Foster Wallace, Brevi interviste con uomini schifosi

[11] Per quanto ancora David Shields mi ricordi in modo inconfutabile che per chi è affetto dalla sindrome letteraria l'unica dimensione di possibile verità - possibile, si badi - risiede nella parola scritta, cioè, cosa che terrorizzava il giovane Salinger che probabilmente ne aveva visto su di sé le nefaste conseguenze, un fatto si libera dal suo essere una cosa del tutto priva di significato e di rilevanza solo nel momento in cui viene scritto o, per estensione, letto, e in entrambi i casi lo scenario, per quanto esaltante, ha pure senza dubbio uno sfondo di Terra Desolata individuale, e individualista. Per la precisione Shields scrive: "Se non la scriverò, l'esperienza non verrà realmente registrata. Il linguaggio, prima passato da prigione a rifugio, torna a essere prigione".

[12] Cfr. Infinite Jest, l’opera mondo di DFW.

[13] Essi ci guardano dalle Torri. Titolo originale: The Watchtowers

[14] Lui non c'era quel pomeriggio, ma il gestore è stato squisito, perfetto anche senza l'aggravante della celebrità.

[15] D.H. Lawrence, Classici Americani

[16] (E i lillà continuano, facendosi beffa della storia, o meglio delle balbuzie dei suo analisti razionali, a fiorire nel prato davanti alla casa. Anche se il Capitano - mio Capitano - se ne è andato, anzi, soprattutto perché lui se ne è andato.

[17] Il protagonista del monumentale romanzo di Philip Roth, Il Teatro di Sabbath, National Book Award nel 1995. Difficile dirlo, ma molto probabilmente è il capolavoro di Roth. Harold Bloom e J.M. Coetzee concordano

[18] Anche se perfino gli addetti alla security del JFK saranno gentili con me, in modi che mi indurranno, ciclotimico quale sono, a preziosi e strazianti attimi di commozione: piangerò, di nascosto, riconsegnando a un'altra viaggiatrice i guanti di lana di alpaca che aveva dimenticato nel cestino degli effetti personali dopo il body scan.

[19] (Gli eredi Onassis non me ne vogliano)


Leonardo Merlini 
© 2014

02 febbraio 2014

46

Su Philip Seymour Hoffman

Quando morì Kurt Cobain mia sorella ebbe una crisi isterica. Girava per casa gridando "È morto, è morto!". Era mattina, forse domenica mattina, e mio padre, appena sveglio, ci mise diversi minuti a capire che il decesso non riguardava un parente stretto. In quel lasso di tempo credo che abbia passato al vaglio una serie di possibilità piuttosto inquietanti, mentre mia sorella continuava a gridare correndo da una stanza all'altra del nostro appartamento, una casa degli anni Sessanta, quelle con lunghissimi corridoi nei quali sprecare metri quadri e instillare nei ragazzini la sindrome di Shining. 


Quando morì Kurt Cobain avevo 22 anni, ero un insipido studente universitario senza fidanzate. Leggevo Hemingway ma, grazie al cielo, avevo già cominciato a diffidare di Hermann Hesse - anche se Il lupo della steppa resta in un limbo dal quale ho paura di andarlo a salvare: tre anni prima, complice anche una relazione assurda con una compagna di liceo evidentemente fuori di testa, mi aveva entusiasmato in maniera imbarazzante e tuttora ho paura che possa muovermi qualcosa dentro, anche se non lo ammetterò mai - e i Nirvana li ho apprezzati parecchio tempo dopo. Forse avevo ancora i capelli lunghi e, di sicuro, la stempiatura non si era ancora manifestata. Dell'avere 22 anni, ancora neppure compiuti, la cosa che mi colpisce di più oggi è il fatto che ne siano passati quasi altrettanti. Il che mi avvicina all'età di Philip Seymour Hoffman, l'attore americano morto poche ore fa nella sua casa di New York, apparentemente - riporta la sempre posata Bbc - per overdose di droga. Eroina, scrivono tutti su Facebook, eroina. È un ritornello che in fondo nessuno aveva davvero dimenticato, una di quelle parole radioattive: le puoi anche seppellire sotto quintali di terra, puoi gettarle in fondo al mare, puoi abolirle dalle conversazioni à la page, ma loro restano sempre lì, irradianti, incandescenti, inafferrabili. Come la morte. 46 anni, questa era l'età di PSH (la stessa di David Foster Wallace, e quel mattino del 2008 - succedono sempre di mattina queste cose, anche il mio cane Wall Street è morto di mattina e, dopo la telefonata, mi sono visto darmi dei pugni sulla fronte seduto alla mia scrivania in redazione e una collega si è parecchio preoccupata - ero al lavoro e non ho scritto un lancio di agenzia sul suicidio e non ho pensato niente, sono rimasto solo in silenzio per un po', e credo che questo atteggiamento non me lo perdonerò...) un'età che forse ha stupito molti, visto che a Hoffman il cinema riservava spesso parti scomode e all'opposto del giovanilismo. E poi nella sua biondezza americana la barba era naturalmente indotta a imbiancare con più facilità, e c'era sicuramente del tormento vero, e che cazzo ne posso sapere io di come stava davvero quest'uomo...

Quando muore un attore muore un pezzo del sogno di cambiamento che tutti ci portiamo dentro, o meglio, delle possibilità che da qualche parte sappiamo esistere (e io, dannato me, sono uno di quelli a cui questa possibilità basta per accettare tutto il resto, e così facendo devasto me stesso e spesso anche altri, facendo finta di essere uno per bene... Ma i mostri hanno tante facce, ricordatevelo) e la speranza che possano concretizzarsi, un giorno, lontano ma non troppo, è un argomento socialmente accettato per motivare l'acquiescenza collettiva ("I corvi che gracchiano Rivoluzione", mi ricorda il Jovanotti forse più ispirato di sempre). Ma quando la faccia di gomma di un attore di talento, uno condannato a ruoli scabrosi, esposto a essere niente meno che Truman Capote, con una tendenza alla pinguedine che segretamente confortava chi poi la esecrava pubblicamente (e intanto nel locale in cui sto scrivendo stanno suonando tutto un album dei Cranberries, e adesso è il momento - struggente e peloso al tempo stesso - di Ode to my family) quando muore una faccia così, allora tutto il sistema viene messo in discussione, tutte le certezze vacillano, restiamo pure noi nudi come il re che è così scontato (pensateci!!!) denunciare a bella posta (in fondo io quel bambino della favola lo detesto).

Moriamo anche noi. Stasera. E una parte di me non ha nemmeno troppa paura. Fanculo al mondo? Sempre troppo facile, e l'unica cosa che posso dire con certezza è che nulla è mai facile. Né le parti di PSH, né le parolacce alla fine di un pezzo. Quindi niente, come non detto. Un uomo di 46 anni è morto, i messaggi di cordoglio si susseguono, e la mia birra è finita.Così va la vita.
Saperlo non mi impedisce di essere triste, ma brindo a Philip con affetto.