01 agosto 2019

Nel Presente a venire

 (Disperazione e letteratura in Toscana, con Ben Lerner e i Coma_Cose)

 

E’ quasi mezzanotte, ho spento da poco la luce sul comodino della stanza da letto nell’appartamento in una piccola località di mare nel Livornese, dove da qualche anno passo le estati da padre. Sto completando la quarta (se non erro) rilettura di Nel mondo a venire di Ben Lerner: questa sera ho affrontato le pagine da 222 a 256 dell’edizione Sellerio. Ora sono steso al buio, girato sul fianco, la mano sinistra sospesa nel vuoto, oltre il bordo del letto; sento che il sonno sta arrivando, quel momento buono in cui le cose prendono una forma che sembra sensata, che sembra rotonda. Prima del sonno, però, arriva improvvisa un’altra sensazione, quella che stavo cercando - è vero, senza troppa convinzione, più sotto traccia - da oltre due settimane: il modo per entrare in una storia che parlasse di ansia, di perdita, di scomparsa del presente, di una frase che un collega serioso aveva scritto in una mail a tutta la redazione qualche tempo fa: “Siamo sull’orlo del baratro e il tempo è scaduto da un pezzo”. Mi era parsa, fin dall’inizio, lo spunto perfetto per scrivere, in queste notti toscane, qualcosa che parlasse di me, ma anche di altro, qualcosa che avesse una struttura in qualche modo utile a comprendermi dentro le grottesche circostanze lavorative degli ultimi due anni. Ancora però non avevo trovato una maniera per farlo che mi sembrasse almeno decente. Adesso invece un modo mi pare che ci sia, e allora mi alzo, apro il Mac, metto a scaldare un po’ d’acqua per il tè e mi siedo a scrivere quello che segue, ossia il vero inizio di questo pezzo.

Ogni mattina qui a Vada mi sveglio sudato, maleodorante, con addosso una sensazione di angoscia che una parte di me si compiace di definire “devastante”. E’ un fenomeno relativamente comune per la mia stagione estiva: la luce che entra prestissimo dalle finestre, le vacanze, la perdita della routine-droga nella quale fingere che tutto-abbia-un-senso, o perlomeno una forma riconoscibile. Però ultimamente il quadro peggiora, o, meglio, diventa più schizofrenico: alti e bassi inspiegabilmente vicini, montagne russe emotive, dalle quali, comunque, scendo con una nausea quasi insopportabile, prima di tuffarmi, come se niente fosse, in realtà praticamente ubriaco, nella luce bianchissima che unisce la pineta al mare. Quella stessa luce che mi fa pensare all’idea di realtà che, pur con un certo impegno (anche fisico, pedalando carico di borse su improbabili salite, per esempio) alla fine continuo a non riuscire mai ad afferrare. No, non è vero che non ci riesco proprio mai: se sto scrivendo questa cosa ora (qualunque cosa sia) è perché leggere Ben Lerner è il momento in cui un evento reale, per una volta, (mi) succede davvero.

Il legame con Lerner, che non ho mai neppure visto di persona (mentre, lasciatemi l’Angolo della Vana Vanteria, ho scambiato qualche parola con Don DeLillo, ho scritto e ricevuto email da Jonathan Lethem, ho incontrato diverse volte Jonathan Safran Foer e ho preso una lunga birra di notte con Geoff Dyer a Torino, quasi fossimo in un romanzo di Tom McCarthy, intervistato pure lui) è un legame strano, ma è stato indissolubile fin dall’inizio, quando il suo nome, a me in quel momento del tutto ignoto, ha fatto capolino più volte in un altro libro, figlio di una serie di coincidenze pazzesche che adesso non starò a elencare (credo peraltro di averlo già fatto altrove, ripeto sempre le stesse cose, mi rendo conto, e questo è quasi l’unico motivo per cui una parte di me continua a pensarmi come uno scrittore; parentesi nella parentesi, la definizione ufficiale che uso è: “Sono uno scrittore, non faccio lo scrittore”), dicevo, il libro era How Literature Saved My Life di David Shields e lì Lerner, definito “un giovane studioso”, giocava una parte di rilievo fin dalle prime pagine, per me assolutamente magnetiche, nelle quali era cruciale la citazione di una poesia di John Ashbery - Paradoxes and Oxymorons - di cui alcuni versi definivano esattamente, per Lerner, Shields e anche per me, la relazione con la letteratura come uno specchio nel quale riflettersi è necessario (è l’unica cosa da fare), ma ovviamente è anche impossibile (in maniera completa):

You have it but you don’t have it.
You miss it, it misses you. You miss each other.


(Riflettersi nella letteratura è pure il motivo di questo pezzo, è la strategia che tenta di combattere l’angoscia… E’ ovviamente una roba da Don Chischiotte, superba e ridicola al tempo stesso, il sogno di un matto reale che diventa una specie di religione, la religione del romanzo, per dirla con Franco Cordelli, che resta uno molto bravo). In questo continuo mancarsi, in questa reciprocità della sensazione di perdita, Ben Lerner e David Shields (che insieme a Vonnegut, ma ai tempi ero troppo giovane, resta l’unico scrittore vero a cui abbia scritto una lettera da fan, vonnegutianamente delirante come quelle che Eliot Rosewater scriveva a Kilgore Trout: non avere scritto a Trout è stato un errore colossale, mi rendo conto, una macchia che mi porterò dietro per sempre) costruiscono la cornice di riferimento che, mentre stavo decollando per lasciare New York (dove, ovviamente da Strand Books, avevo trovato la mia copia - autografata - di How Literature) nell’autunno del 2013 (tutto succede sempre dopo), mi ha permesso di decrittare, almeno in parte, tre parole per me abbastanza rilevanti: “La mia vita”.
A partire dall’incipit wildeiano di Shields: “All criticism is a form of autobiography”, dove ho sempre inteso la critica proprio come critica letteraria. Esattamente così. L’unica autobiografia possibile, per me, era questo riflettersi nei libri altrui, che però è una tautologia impossibile, e cià che resta è solo la sensazione di mancarsi ogni volta. Che poi, Mancarsi, è anche il titolo della canzone dei Coma_Cose che dice “Ma ci pensi mai, a noi due, agli sbagli, a chi ci ha preso in giro, agli sbalzi d’umore che ci causano drammi” e che ho ascoltato compulsivamente negli ultimi mesi. Però questo sul volo Delta dal JFK che mi riportava in Europa quasi sei anni fa non lo sapevo ancora, ma in ogni caso, retrospettivamente, anche questa era perfetta, un altro specchio cieco per le famose tre parole di prima, coniugate comunque al presente, nel passato.

(Qualche tempo fa avevo pensato, anche con un certo entusiasmo, di scrivere un pezzo su California, la femcee - ossia una rapper o freestyler donna - dei Coma_Cose, che ha una voce pazzesca, sembra quella di un bambino, ma al tempo stesso è chiarissimo che non è la voce di un bambino, e questo genera uno scarto che rende tutto piuttosto interessante, mettendola in relazione a Megan Rapinoe, la calciatrice statunitense con i capelli viola che ha guidato la sua nazionale alla vittoria dei Mondiali femminili e che regolarmente esterna contro Trump a favore dei diritti, del dialogo, delle varie diversità. Due donne abbastanza particolari in mondi tendenzialmente maschili, ma soprattutto due facce e due corpi pubblici che dicono qualcosa… Mi sembra ancora una bella idea, ma so di avere perso il momento buono per farla diventare vera, pazienza).


New York, dicevo. Ci sono tornato nella primavera di quest’anno, per l’opening di due mostre di Piero Manzoni da Hauser & Wirth (roba talmente figa che la scrivo proprio per sembrare figo a mia volta) e, oltre a importunare il portiere del palazzo su Park Avenue dove viveva J.D. Salinger da bambino, ho cercato di usare proprio Lerner e Nel mondo a venire per fare cortocircuitare la mia letteratura e la mia realtà, sperando, novello dottor Frankenstein, di dare vita a una esperienza che fosse effettivamente vera per me (e la cosa poteva funzionare solo attraverso un libro che, tutto intero, mette in discussione ogni possibile esperienza di questo tipo: “Tutto questo me lo ricordo - scrive il buon Ben - il che vuol dire che non è mai successo”). Così, in una mattina particolarmente soleggiata sono partito all’alba da East Harlem, all’altezza della 125th Street, e ho camminato attraverso una discreta quantità di paesaggi urbani diversi per arrivare fino a Central Park e poi al Metropolitan Museum (sull’82nd Street) e, con il romanzo di Lerner nello zainetto (ma indossando la mia giacca migliore, blu a pois blu più scuri e con una spilla a forma di orsetto di gelatina verde di cui vado fiero) sono andato a cercare la Giovanna d’Arco di Jules Bastien-Lepage (trovata solo dopo avere chiesto aiuto a un custode delle sale secentesche che, con grande tatto, mi ha fatto notare che si trattava di un dipinto dell’800, che quindi avrei potuto ammirare nell’altra ala del museo), quadro davanti al quale si svolge una scena chiave di Nel mondo a venire nella quale il narratore di Lerner ragiona della mano di Giovanna che “sembra dissolversi nel nulla. […] E’ come se la tensione fra il mondo metafisico e quello fisico, fra due ordini di temporalità, producesse un’imperfezione nella matrice pittorica: lo sfondo inghiotte le dita”. Al protagonista del romanzo l’immagine richiama alla mente il film Ritorno al futuro e la fotografia della sua famiglia che Marty portava con sé e che, a mano a mano, cambiava per via degli scombussolamenti arrecati al loro passato. “Lui e i suoi fratelli - prosegue Lerner - cominciano a svanire dall’istantanea. Solo che qui, nel dipinto di Giovanna, è una presenza, non un’assenza, a mangiare la mano della donna: la stanno trascinando dentro il futuro”.
Sono stato diversi minuti davanti al quadro, ho scattato foto, anche con il libro e la pagina aperta proprio in quel punto in cui avveniva la storia raccontata nelle frasi dello scrittore. Lui pensava al futuro, io cercavo, goffamente, di prendere la mano della santa guerriera per ancorarmi al presente. Però, lo sapete già, la mano si dissolveva nel nulla e con essa il mio tentativo di appiglio. Per la realtà vera, dunque, mi sono rimasti solo gli hotspot di Starbucks dove fare soste regolari (anche fuori dai caffè) per rubare qualche minuto di wifi e controllare Whatsapp. Non un granché come risultato, in effetti. Però c’è un però: aver provato con Giovanna d’Arco a fare un passo in più dentro il presente, sebbene con scarso o nullo successo, è stato un passo in più dentro il presente. Anche se non lo è stato.

(“E poi - dice più avanti nel romanzo la specie di fidanzata del protagonista, Alena, mentre nei fatti i due si stanno lasciando - in futuro potrò desiderare che torni quel passato in cui desideravo che arrivasse il futuro in cui avrei desiderato che tornasse il passato”. Ecco, avrei voluto scriverla così anche io, ma Lerner lo aveva già fatto).

Adesso, che provo a rileggere quello che sto scrivendo, mi rendo conto che, nonostante la serie di sproloqui, non parlo della cosa da cui sono partito: l’angoscia e l’orlo del baratro. O almeno, sembra che non ne parli. Perché invece quello che - senza grande originalità, ne sono consapevole - alimenta tutta questa cosa verbosa è proprio la sensazione che lo specchio della letteratura, sotto forma degli episodi di pianto sulle panchine di Brooklyn nel libro di Lerner (panchine sulle quali io mi sono seduto) o piuttosto dell’ammissione di David Foster Wallace di essersi sentito totalmente disperato mentre raccontava, nel suo libro più leggero, l’incubo turistico di una crociera extralusso, sia l’unica superficie, scivolosa by definition, cui aggrapparmi nel tentativo di fornire a me stesso l’immagine di una mancanza che in qualche modo mi somigli, l’unica strada, come dice Alex, la migliore amica del protagonista di Nel mondo a venire, per “trovare un modo per vivere il presente”. E come? Grazie al fatto che in quella immagine che non c’è, in quella relazione tutta mentale con persone che fanno gli scrittori di mestiere, che non sanno nulla di me (benché spesso sembri chiaramente vero esattamente il contrario), che spesso vanno in cerca ossessivamente solo del modo migliore per scrivere una frase, indipendentemente da tutto quello che c’è fuori (nel mio piccolo, anche ora, fuori non c’è nulla, e questo è un altro aspetto del punto, adesso quello che sta succedendo mentre digito queste parole sulla tastiera alle 02.01 del mattino è il Presente), questi estranei e sconosciuti trovano modi per influire sulla mia vita nel quadro di uno scenario più ampio, che restituisce un minimo di senso alle cose. Se qualcuno la sta raccontando - mi dico nel mio mondo a venire, che riguarda anche il passato - è perché significa qualcosa, anche se non lo sai. Non smettere di cercarlo e ricordati sempre la differenza: una disperazione da sola è il vuoto assoluto, una disperazione raccontata può essere una strada per tentare di andare altrove. Siamo sull’orlo del baratro, certo, e il tempo è scaduto da un pezzo, sì. Ne sono abbastanza consapevole. Ma anche questa è una storia che si può raccontare, è un abisso dentro il quale gettare uno sguardo dal quale magari ricavare perfino qualche informazione nuova. Se lo capovolgo, il baratro diventa una montagna e posso cominciare a scalarla, per andare un po’ più in alto, e guardare e raccontare e fare magari che la disperazione sia, per qualche breve momento, solo una strategia per arrivare a qualcosa d’altro. A una storia diversa.

“Mentre tornavo a Brooklyn attraversando il Manhattan Bridge, tutto ciò su cui si posavano i miei occhi sembrava irrecuperabile nel miglior senso della parola: impossibile da riprodurre e riproporre, dotato di un’esistenza assoluta e conclusa in se stessa, totale. Era ancora pieno pomeriggio, ma sembrava l’ora d’oro, quel momento della giornata in cui la luce appare insita nelle cose illuminate. Ogni volta che attraversavo a piedi il Manhattan Bridge, nel ricordo ero convinto di avere attraversato il ponte di Brooklyn. E’ perché dal primo si vede il secondo, e il secondo è più bello”. Quanto è bravo Ben, santo cielo.



Il presente, insomma, è già successo, in mille modi, da Ulisse a Shakespeare, da Jay Gatsby a Lisa Halliday, perfino nei racconti di Aimee Bender; le storie sono sempre state lì davanti: immobili e però pure sfuggenti. Pensare di combattere ad armi pari con il Tempo è quello che non voglio più fare (anche perché la fisica mi insegna che il tempo non esiste in nessuna delle equazioni che scrivono la nostra realtà, per essere brutali non esiste tout court, quindi farlo sarebbe, per l’appunto, tempo sprecato). 
Ma andare a ritrovate quei presenti, in qualche altro mondo a venire, per provare a farli un po’ miei, stanotte, tuffandomici dentro come in una piscina di un racconto di Peter Cameron, mi sembra una buona idea. Chissà.

Leonardo Merlini 
© Kilgore Magazine


26 marzo 2019

Il mio problema di Fedeltà con il romanzo italiano

Missiroli, il mainstream e un’idea di letteratura


1.
“Non incoraggiate il romanzo” diceva qualche anno fa Alfonso Berardinelli in una delle sue ricognizioni sullo stato delle lettere italiane. Ricordo, all’epoca, di avere provato un moto di fastidio verso il critico, verso questa esortazione che andava contro le mie aspirazioni di lettore (e, probabilmente, anche di scrittore mancato - leggete pure “frustrato” -, almeno nella mia personalissima autoproiezione). Quello che speravo era che il romanzo venisse incoraggiato, che trovasse una sua nuova dimensione nello spazio pubblico, che prendesse forme aggiornate al tempo presente, non solo della lingua. È successo, per fortuna; lo hanno fatto, per esempio, Emmanuel Carrère o Ben Lerner. In qualche modo lo ha fatto anche Franzen con Purity, forse l’esempio più clamoroso di come un autore complesso (e piuttosto snob) possa arrivare a scrivere un romanzo popolare senza perdere la propria identità.
Berardinelli, però, parlava dell’Italia. E qui, insomma, sta il (mio) problema. Ma serve andare con ordine.

2. 
La copertina è intrigante e artistica. La citazione in esergo ai comunicati stampa (“Che parola sbagliata, amante. Che parola sbagliata, tradimento”) è perfetta, anche nel magnifico uso della virgola, una di quelle arti di cui non se ne ha mai abbastanza. L’editore (Einaudi) e la collana (i Supercoralli) sono praticamente il meglio per qualunque lettore nostrano che si definisca “sofisticato”, seppur magari a bassa voce, sperando che gli altri non lo sentano, quel gorgoglio di autocompiacimento. Fedeltà di Marco Missiroli è il romanzo italiano del momento, un oggetto letterario che vuole ampliare il terreno del mainstream: insomma ci si aspetta che piaccia al bel mondo del sistema editoriale patrio e che pure venda bene. Poi arriverà il Principale Premio Letterario e la fascetta rossa per la quinta edizione e, come in ogni premiazione che si rispetti, un inserviente proveniente dal Subcontinente indiano sparerà coriandoli iridescenti che ricadranno festosi sugli uomini longilinei e le signore eleganti che danzano, mentre lo Scrittore sorseggia il suo liquore paglierino con lo sguardo confuso e felice davanti alle telecamere della Grande Televisione Nazionale. Che cosa si può volere di più. “Preparatevi a leggere la vostra storia”, ribadisce la quarta di copertina digitale del romanzo. E il punto è che la cosa è davvero così. Ma il problema è in che modo ce la racconta. Il problema, potrebbe dire una specie di Savonarola del Sistema Letterario, è a quale prezzo.

3.
Sono anni che ripeto, ormai come un disco rotto e senza troppa originalità, che la buona letteratura, così come l’arte in generale, ha lo straordinario potere di creare dei mondi più “veri” del cosiddetto “mondo reale”. In questa nuova dimensione della “verità” capita spesso di trovare frasi che ci appaiono scritte, come accadeva con la foresta del Barone rampante di Italo Calvino, solo perché io lettore ci potessi passare davanti, accorgendomi che, per quanto strana sia la trama, quel libro sta parlando esattamente di me (di te, di noi, di voi, quello che vi piace di più, come pronome). Questo riconoscimento “da lontano” è il punto chiave: qui scatta qualcosa di, perdonate la prosopopea, universale. Qui si attiva il dispositivo artistico, è un click che cambia le carte in tavola e sposta la sfida a un livello più alto. E lo fa con metodi imprevisti, mettendoci in difficoltà, disturbando la nostra quiete pubblica, perché normalmente ci costringe a vedere nero su bianco sensazioni che erano sempre rimaste nel privato; dentro, non fuori. Opzioni segrete e personalissime.
Di primo acchito Fedeltà sembra fare esattamente la stessa cosa, sul terreno di quell’idea di avventura che, anche grazie alla persona di Monica Vitti, è diventata una sorta di spinoso luogo dello spirito. Il romanzo di Missiroli si legge, attrae, a volte perfino abbraccia chi sta dall'altro lato della pagina. Lo riconosciamo, ci è noto. A volte sembra un’esplosione, una specie di tempesta perfetta. Tutto bene, allora? Eh, forse non proprio.

4.
“Leggere bene - ha scritto il critico George Steiner - significa correre grossi rischi. Significa rendere vulnerabile la nostra identità, il nostro autocontrollo”. Roberto Calasso, nel suo incredibile e indefinibile libro L’innominabile attuale, parla della digitalizzazione come di un’operazione che sposta il focus dalla coscienza (un tempo luogo del “continuo”, quindi dell’universale, dell’assoluto) all’informazione (luogo del “discreto”, del definito, del circoscritto) e in questo modo punta a “smussare ogni residuo tragico dell’esistenza”.
Sono due giganti, Steiner e Calasso, è vero, ed è praticamente impossibile per chiunque essere messo a confronto con loro. Lo so. Ma ciò non significa che non si debba provare comunque, non significa che basti scrivere di un argomento rischioso, come quello che si suole chiamare “tradimento” - peraltro sottocategoria di un’altra parola difficile come “amore” - per mettersi realmente in gioco. La sensazione, leggendo Missiroli (che è e resta comunque iscritto nella colonna di quelli “bravi” sulla scena italiana), è che la sua letteratura non pensi se stessa, si limiti a esistere, si limiti a battere un terreno impervio, ma senza avere assunto dentro di sé questa impervietà. Prima si parlava del riconoscimento “da lontano”, che genera universali, in Fedeltà tutto è troppo, troppo vicino invece.
Mi spiego: Fedeltà si apre con una citazione di Philip Roth (“Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando”), ma basta prendere una qualsiasi pagina de Il teatro di Sabbath per rendersi conto che il campo di gioco su cui ha scelto di stare Missiroli (ripeto, ha scelto) non è quello di Roth, perché nella storia di Mickey Sabbath ogni passo, ogni respiro, avviene su un terreno ignoto, con una densità tragica e grottesca che scaturisce dallo stesso modo di essere (e quindi, perdonate la ridondanza, ma è fondamentale, del pensarsi) del personaggio. Un antieroe che non ha nessuna intenzione di cambiare il proprio stile di vita, ma che al tempo stesso sa benissimo che la sua è solo e sempre una danza con la morte, niente altro. Lasciamo pure perdere le pagine di assoluta visionarietà che il Grande Realista Roth ha disseminato qua e là, sono fuori concorso, ma anche limitandosi alla semplice gestione ordinaria, per così dire, del romanzo, tutto è pervaso da un’idea di grandezza implacabile, anche nella dissolutezza, che è la cifra di come il libro abbia pensato se stesso, costantemente. Senza indulgenze e senza ammiccamenti, avventurandosi, come consiglia Calasso, sempre, pervicacemente, attraverso un terreno ignoto.

Fedeltà, invece, innesca, come si diceva, una sorta di esplosione, ma è una esplosione controllata (“sembra un’esplosione”). La trama ha snodi problematici e solleva dilemmi forti, ma sono problemi e dilemmi che restano pienamente e totalmente riconoscibili, non c’è traccia di ignoto, tutto è riconducibile a noi stessi, cui resta l’ebbrezza di un’avventura fuori dal terreno del lecito, senza però in nessun modo sporcarsi le mani. Non c’è rischio, in questa lettura, caro il professor Steiner, non c’è la ricerca di qualcosa di realmente nuovo. “La vostra vita a voi”, diceva il pastore errante di Leopardi: restituircela è quello che il romanzo di Missiroli prova a fare, senza però mai andare un passo oltre. E la sensazione che resta è quella di avere assistito a uno spettacolo, per l’amor del cielo: accattivante e fruibile senza dubbio, ma nel quale si è voluto tenere lontano l’abisso vero (abisso che è anche grottesco) che la storia messa in campo avrebbe potuto evocare. Come se fossimo alla serata finale del Festival di Sanremo, come se vivessimo sempre su Rai Uno, dove tutto deve essere sì un po' pruriginoso, ma dovutamente rassicurante e plastificato, alla fine. Adelante, con juicio, Pedro
Invece io credo che da un romanzo, come ci hanno insegnato Cervantes o Flaubert, sia lecito e, aggiungo, doveroso sperare in qualcosa di più. Perché altrimenti dopo la bevuta resta solo un vuoto a rendere.

5. 
Il problema, inutile fare finta di nulla, è comune a tanti degli scrittori italiani più letti e premiati. Come se solo nella sfera del noir (che i benpensanti continuano a guardare alzando entrambe le sopracciglia, quindi posto comunque al di fuori della “ letteratura” ufficiale, con poche sceltissime eccezioni) fosse concesso scavare a fondo nell’umano e nelle sue sfaccettature oscure. Come se fosse indispensabile utilizzare situazioni violente per giustificare una scrittura tecnicamente violenta o, meglio, feroce: questo è il mio problema con la letteratura italiana (anche qui ci sono eccezioni, naturalmente, ma sono per vari motivi ai margini della Grande Corrente), l’assoluta sordità che risuona quando pongo la domanda sulla scrittura che pensa se stessa come quell’ascia per scavare dentro il ghiaccio dello scrittore, per citare Kafka, e che come ascia deve comportarsi anche nei confronti del lettore, soprattutto quando parla del consueto, del quotidiano, delle tenerezze. Rendere sconosciuto l’ordinario e conosciuto lo straordinario: questo mi hanno risposto molti artisti quando ho chiesto loro a che cosa servisse l’arte. Questo credo sia anche uno degli obiettivi della letteratura che crede in se stessa in quanto letteratura. Se non ci riesce un Marco Missiroli, e qualche caduta (però gestita e superata) in questo senso l’ha avuta anche una altro scrittore di certo valore come Marco Rossari, vuol dire che farlo in Italia sul terreno più classico del romanzo è davvero difficile. (Non parlo del caso Elena Ferrante, perché questa è ancora un’altra storia, che ha a che fare con la saga e, comunque, non è l’oggetto di questa riflessione).

Per fortuna, però, questo è anche un Paese eclettico, che ha partorito grandissimi scrittori di testi poco incasellabili (di Calvino si è già detto, ma pensate alla triade Morselli-Manganelli-Flaiano, per esempio) e, forse anche per colpa dell’eredità del Colosso Manzoniano, la cultura del romanzo ha vissuto un Novecento non facilissimo, puntellato però di varianti eterodosse (Gadda-Pasolini-Arbasino?), la cui eco si sente ancora e si manifesta in Walter Siti, in Nicola Lagioia, in Teresa Ciabatti, in Chiara Valerio, in Gianluigi Ricuperati, in Letizia Muratori, a volte in Giuseppe Genna. Il romanzo italiano sta lì, dove sembrava non ci fosse, dove la scrittura si libera quasi sempre del resto, dove il coltello viene usato per lunghi tratti come tale. Un’ascia che ha il coraggio dell’osceno, nel senso di ciò che è fuori dalla scena, celato, temuto, ma fatto letteratura. Pensate a Troppi Paradisi di Siti, solo per citare un titolo.
Da queste parti il Festival di Sanremo è un soggetto di cui si può scrivere, ma non è la forma mentis della scrittura stessa.

6. 
Chiaramente tutto quanto scritto finora deve fare i conti con il tema del mainstream, e con l’idea sacrosanta che i libri sono anche intrattenimento (e sono oggetti che stanno sul mercato). Credo che Missiroli abbia voluto sinceramente scrivere un romanzo che potesse unire la popolarità e la qualità. In parte ci è riuscito, ma mi rimane il dubbio, di nuovo, che l’elemento che non mi torna stia a monte, ossia nel modo in cui lo scrittore, o per meglio dire, il libro, per comprendere tutta la filiera che alla fine partorisce l’oggetto che infine arriva sullo scaffale delle librerie, ha stabilito come essere popolare, il modo in cui ha pensato il proprio essere mainstream. La mia personale sensazione è che sia stata una scelta al ribasso, un conformarsi al già digerito, un ritenere sostanzialmente necessario non cambiare la cornice di riferimento, cercando di farci entrare un oggetto letterario che, di suo, non ci sarebbe dovuto stare lì dentro. Insomma, anziché allargare la cornice, ha rimpicciolito il quadro, le sue potenzialità e le sue ambizioni. E questo è un peccato strategico, che rispecchia un modo di fare editoria sul quale potremmo a lungo discutere.

Il mainstream è, senza dubbio, la sfida culturale del nostro presente, ed è anche una grande occasione da tanti punti di vista. La torre d’avorio, ci piaccia o no, è stata distrutta da un pezzo, sebbene ci sia sempre qualche negazionista proattivo. Ma che cosa possiamo creare al suo posto? Come possiamo portare la letteratura dentro la società, dentro la testa delle persone? Come dice Calasso il presente è diventato “innominabile”: potrebbe essere una mutazione irreversibile, ma forse anche l’occasione per trovare un modo nuovo (e lo stesso Calasso lo fa, come dimostra il libro che di questo tema ragiona) per dire e scrivere il nostro tempo.
Senza fedeltà se non alla letteratura.

Leonardo Merlini
© Kilgore Magazine