“Lo avevo conosciuto come bulldozer, samurai, androide programmato per uccidere, Uomo di Plastica e Uomo di Titanio, Divoratore di Sostanza Corporea, Buick Elettrica, camion Peterbuilt, e anche, solo per una settimana, ponte sullo stretto del Mackinac. Ma è stato come lupo mannaro che Timothy Stokes, alla fine, esagerò davvero”. Inizia così, con uno straordinario crescendo di stranezze e di suspence, il racconto “Lupi mannari americani” di Michael Chabon che dà anche il titolo alla recente raccolta di nove short story dello scrittore americano. Un libro che, attraverso vicende diverse, unificate però della nitidezza della scrittura di Chabon, mette in scena una serie di periferie americane che sono tanto luoghi geografici quanto situazioni emotive e morali. Così, accanto alla presunta licantropia del piccolo Timothy, il primo racconto ci parla anche delle famiglie in difficoltà nella middle class statunitense e di come sia difficile essere bambini fantasiosi – forse troppo – nella società di oggi.
Nato nel 1963 e già vincitore di un premio Pulitzer con il romanzo “Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay”, Michael Chabon ha la dote di saper raccontare diversi livelli di realtà e di riuscire a mettere sulla pagina qualcosa di ineffabile come lo spaesamento dei bambini di fronte a un mondo che non capiscono fino in fondo e i loro meccanismi mentali, frutto di una percezione assolutamente unica di ciò che li circonda. Al tempo stesso riesce a trasmettere una forte empatia per i suoi personaggi, rendendo così meno amare e quasi consolatorie anche le storie più dolenti.
L’America che emerge dalle pagine di Chabon è un Paese che sembra stanco di fuggire da qualcosa che lo minaccia, da incubi – come quello dello “stupratore del lago” o di una spaventosa acciaieria gestita da amazzoni postmoderne – al tempo stesso inusuali e quotidiani. Nei nove racconti si trovano così licantropi e tetri operai misteriosamente mutilati (che danno al libro una decisa impronta nera), ma anche ottici in bancarotta con la tentazione di rapinare la vecchia nonna della moglie o coppie in difficoltà che in qualche modo si ritrovano al bancone di freddi bar di periferia. E allora ecco che l’effetto complessivo che si ricava è quello di un'America grigia, stretta tra le paure e il desiderio infantile di una vera felicità, costretta in panorami di periferie spesso desolate ma bramosa, al tempo stesso, di vedere al di là della semplice quotidianità. Come l’anziana signora Box che dalla finestra del suo appartamento cerca di scorgere con un vecchissimo cannocchiale, anche nel buio della notte, la casa dove da giovane era stata felice.
I racconti di Chabon, che richiamano alla mente tanto i film delicati di Wim Wenders quanto quelli a volte insostenibili di Todd Solondz, parlano comunque, fondamentalmente, di persone sole che hanno preso consapevolezza di essere mostri potenziali. La loro forza, e la causa dell’empatia che il lettore prova verso di essi, sta però nel tentativo di opporsi alla degenerazione, o per lo meno il fatto di averne consapevolezza. E così nasce la solidarietà stramba e diffidente tra i due bambini più problematici della scuola elementare Copland, che forse non sono amici ma si riconoscono reciprocamente come simili, ciascuno antidoto alle stranezze dell’altro. Chabon, tra le righe, ci dice che probabilmente siamo tutti un po’ lupi mannari, ma non per questo smette di volerci bene. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.