24 ottobre 2006

L'Odissea perfetta

Qual è il miglior film della storia? Quante volte abbiamo sentito la domanda e abbiamo provato ad abbozzare una risposta... In base a dei ricordi un po’ confusi di vecchie letture, pare che per lungo tempo il titolo sia stato assegnato (non si sa bene da chi, ma di certo da più parti) a “Quarto Potere” di Orson Welles. Secondo la classifica di Imdb.com (una sorta di bibbia per i cinefili telematici) al primo posto si colloca invece “Il Padrino” di Francis Ford Coppola. E l’elenco potrebbe continuare a lungo. Altri ancora indicano "Pulp Fiction" di Tarantino, mentre non manca chi pensa alle opere di Ejzenstein o di Chaplin. Insomma, come tutte le classifiche anche questa è pressoché impossibile da stilare e, Kilgore lo ammette, ostinarsi a volerle mettere nero su bianco è anche un po’ stupido. Però è incredibilmente divertente!

Tutto questo pesante cappello per raccontare che l’altra notte ho rivisto “2001: Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick e mi sono convinto che, tra quelli che conosco, potrebbe essere davvero il miglior film di sempre. Al di là della trama (Kilgore ama molto la fantascienza di Clarke, assai più di quella di Asimov) che in molte parti può risultare oscura, la forza straordinaria e, a mio avviso, tuttora insuperata del film sta nelle immagini. Come recitava il trailer originale siamo davvero di fronte a un’esperienza visiva senza precedenti, che si fissa nella mente dello spettatore e non se ne va più. In particolare continuo a restare a bocca aperta davanti alle immagini dell’interno dell’astronave: hanno una perfezione e una definizione che, pur a quasi 40 anni di distanza, le rendono insuperabili.

Mi viene in mente l’esattezza teorizzata da Calvino in una delle sue “Lezioni americane”: un concetto che è insieme estetico ed etico e che definisce il perimetro esterno della perfezione. Ecco, le immagini di Odissea nello spazio sono semplicemente perfette in ogni dettaglio. Il grandangolo riprende un campo visivo vastissimo, eppure ogni punto è perfettamente esposto, in una maniera così naturale che ci fa pensare che Kubrick abbia davvero inventato un mondo che non c’è. Straordinario. Pensate alla luce che si irradia sul corpo di Poole mentre fluttua nello spazio senza vita. Pensate ai pulsanti luminosi nella plancia di comando di Bowman o all’illuminazione impossibile delle intercapedini di passaggio tra un settore e l’altro dell’astronave. E’ come se ogni fotogramma fosse una fotografia superba per inquadratura ed esposizione.

Certe classifiche non hanno senso, lo ripetiamo, ma se lo avessero nella mia privata forse Odissea nello spazio starebbe davvero al primo posto.

20 ottobre 2006

L'indiano che parlava davvero di pace

Un rifiuto della logica che è alla base della teoria dello "scontro di civiltà" e un invito a riflettere sulla pluralità di appartenenze che caratterizzano ogni uomo: è questo ciò che il premio Nobel Amartya Sen tenta di fare con il suo ultimo saggio, "Identità e violenza", edito in Italia da Laterza. Indiano, rettore a Cambridge e docente ad Harvard, Sen rappresenta una delle voci più impegnate nel portare avanti un'interpretazione etica della globalizzazione, tanto dal punto di vista economico quanto da quello politico. In questo libro, sempre appassionato e coinvolgente, lo studioso contesta l'idea che ciascun essere umano sia definito da un'identità esclusiva, sia essa la nazionalità piuttosto che l'appartenenza religiosa, e accusa tali interpretazioni di essere generatrici di odio e violenza.

"Molti dei conflitti e delle atrocità del mondo - scrive Sen - sono tenuti in piedi dall'illusione di un'identità univoca e senza possibilità di scelta". Ma, nota poco oltre il premio Nobel, "l'idea che le persone possano essere classificate unicamente sulla base della religione o della cultura è un'importante fonte di conflitto potenziale. La credenza implicita nel potere predominante di una classificazione unica può incendiare il mondo intero". Amartya Sen mette in luce nelle sue pagine la pluralità di identità che caratterizzano ogni individuo: religione e nazionalità certamente hanno un grande ruolo, ma vi sono anche numerose altre possibili categorizzazioni, legate per esempio alla classe sociale, al livello d'istruzione, all'orientamento sessuale, alla lingua parlata, alle opinioni politiche. E la lista potrebbe essere ancora lunga. Insomma, dice in sostanza Sen, l'identità non è una caratteristica intrinseca, ma è qualcosa che si può scegliere.

Sen cita espressamente, per confutarla, la teoria di Samuel Huntington: "La stessa domanda 'Esiste uno scontro fra civiltà' - si chiede l'economista indiano - si fonda sul presupposto che l'umanità possa essere classificata in via preferenziale in civiltà distinte e separate, e che le relazioni tra esseri umani differenti possano essere in qualche modo considerate, senza nuocere più di tanto alla comprensione, in termini di rapporti tra civiltà differenti". Questa visione, che Sen definisce "solitarista", ha come conseguenza pressoché automatica la violenza, ritenuta inevitabile e quasi fisiologicamente inserita nell'identità esclusiva. Ma, scrive Sen riferendosi a tutti gli esseri umani, "possiamo fare meglio di così".

A fronte dei sostenitori dell'inevitabile contrapposizione tra le appartenenze religiose Sen sostiene l'importanza dell'affermazione di identità multiple: "Le prospettive di pace nel mondo contemporaneo - scrive - possono nascere forse dal riconoscimento della natura plurale delle nostre affiliazioni". Una pluralità che è, come si diceva prima, caratteristica comune a tutti gli esseri umani. Per questo Sen si fa portavoce di una "identità globale", in grado di unire gli uomini e di promuovere concordia anziché dividerli e favorire la violenza. Una nuova affiliazione che "non impone di sostituire le nostre fedeltà nazionali e la nostre lealtà locali con un sentimento di appartenenza globale, che si riflette nell'operato di un gigantesco 'Stato mondiale'. Anzi, l'identità globale può iniziare a riscuotere quanto le è dovuto senza cancellare le altre fedeltà". Solo superando la logica della "miniaturizzazione degli esseri umani" e delle "piccole patrie" - conclude Sen - è possibile cambiare il futuro e uscire dalla logica dello scontro permanente. Un messaggio di rinnovato umanesimo che potrebbe aprire e la strada a scenari meno foschi per il XXI secolo.