31 dicembre 2009

Jedediah Berry, forse il libro dell'anno

Il cortocircuito è immediato: si prende in mano un romanzo - Manuale di investigazione di Jedediah Berry, edito da Adelphi - si comincia a leggerlo, e subito si scopre che lo stesso libro che abbiamo in mano è anche uno degli elementi chiave della fiction, che i suoi capitoli, quelli che leggiamo noi, sono gli stessi che leggono i protagonisti e, almeno in un caso, il lettore e il personaggio principale leggono la stessa pagina (106) nello stesso momento. Come se l'enorme occhio dorato che campeggia ipnotico sulla copertina del romanzo (e anche del manuale omonimo nel plot) ci avesse trasportato in un'altra dimensione, meravigliosamente metaletteraria. E questo è solo l'inizio, perché poi il libro di Berry - trentenne newyorchese che con quest'opera debutta - riserva una serie di sorprese che accompagnano il già frastornato lettore in un mondo parallelo fatto di altri mondi paralleli e onirici nei quali un oscuro impiegato, Charles Unwin, si trova suo malgrado catapultato sulla scena con l'inedito ruolo di detective per risolvere un mistero - probabilmente il mistero dei misteri - e tutto ciò solo per poter tornare a svolgere il suo ordinato e maniacale lavoro di copista.

La storia è rocambolesca, ossessiva e surreale ma, come dice a un certo punto Unwin, il diavolo è nei dettagli e nel caso di Berry sono dettagli straordinari, che conferiscono a Manuale di investigazione una forza visionaria kafkiana: dagli spazi angusti ai sub-impiegati che lavorano dormendo, dall'enorme edificio che ospita la potentissima e oscura Agenzia, alle stanze d'albergo dove vive l'ambigua Cleopatra Greenwood. Il tutto condito da situazioni magrittiane (la gigantessa, le piccole anomalie di scenari apparentemente "normali") e un doveroso omaggio al ruolo classico del detective, per il quale spendere il nome di Philip Marlowe è tanto scontato quanto doveroso.

Come ha scritto Livia Manera sul Corriere della Sera, siamo di fronte a "una rilettura de Il Processo di Kafka, un ammiccamento a Le città invisibili di Calvino e una reinterpretazione di Alice nel Paese delle meraviglie, senza perdere di vista il gusto hard boiled di Raymond Chandler". Ma, accanto a un'esperienza di lettura che rinnova il genere della detective story, la forza del romanzo di Berry sta anche nella riflessione sottesa dalla trama, e mai come in questo caso il parallelo con Franz Kafka è pertinente. Si sta infatti parlando del potere e del suo rapporto con la mente delle persone, del controllo e della sempre insondabile contiguità tra chi si presenta come il garante dell'ordine e chi fa della promozione del disordine la propria missione. Tra questi due poli, solo apparentemente inconciliabili, si muove una folla di sonnambuli che sembra essere uscita dalle opere migliori di registi visionari come Terry Gilliam o Jean-Pierre Jeunet e che, a ben guardare, ha il volto di ognuno di noi.

Tra le tante possibili citazioni del romanzo sono imprescindibili quelle sull'importanza del mistero ("Se il detective non riesce a mantenere i suoi segreti, allora non riuscirà mai ad apprendere i segreti degli altri"), ma ne spicca anche una, pronunciata da un sorvegliante a quel punto già morto, che può essere definita una piccola antropologia del matrimonio: "In tutte le occasioni in cui ho incontrato mia moglie sul terreno, per così dire, sono sempre rimasto stupito dalla vastità degli eventi in corso. Devo ammettere che la cosa mi spaventa un po'". Non è da escludere che, in questa fine 2009, Manuale di investigazione possa trasformarsi nelle nostre mani nel libro dell'anno.

10 agosto 2009

Le due rivolte di Camus, oggi come non mai

Viviamo nella società della paura, una società che ha come missione quella di rendere gli uomini disperati e che si basa sulla menzogna. Soffochiamo schiacciati da “coloro che sono convinti di avere assolutamente ragione” e in questi opposti estremismi, tragicamente, affonda l’umanità. Nessun dubbio che queste riflessioni si adattino bene alla situazione del nostro presente, che vive in una sorta di paradiso orwelliano, assediati come siamo dalla paura della diversità e dal riemergere dell’ideologia, seppur travestita, che torna a predicare verità assolute. Eppure sono frasi che Albert Camus scrisse alla fine degli anni Quaranta, pensando a un mondo che i libri di storia ci dicono essere molto diverso dall’attuale, anni luce lontano dalla nostra postmodernità gaudente e paranoica. Sono frasi che, tolta la patina – invero lieve – del tempo che le separa da noi, ci costringono a riflettere su quanto poco sia cambiato, su quanto poco ci sia liberati, su quanto ancora attuale sia la lezione di Camus. E della sua lezione più radicale e politica si occupa un saggio uscito per i tipi della casa editrice libertaria Elèuthera, curato dal giornalista e scrittore Vittorio Giacopini, che ripropone al lettore gli scritti politici del premio Nobel di Orano e rilancia, inequivocabile, il suo invito alla rivolta.

“Mi rivolto dunque siamo” ribadisce, attraverso diversi testi di Camus apparsi nei decennio 1946-1956, come cercare la verità sia probabilmente l’atto più sovversivo che si possa immaginare. E lo fa con una chiarezza interpretativa che sorprende per la lucidità e aderenza alla realtà in cui viviamo. Camus parla della paura che ci attanaglia (“Il lungo dialogo tra gli uomini – scrive nel 1946 – si è adesso interrotto. E, ovviamente, un uomo che non è possibile convincere è un uomo che fa paura”) e descrive con precisione il ritorno delle “idee assolute e del messianesimo senza sfumature”. La guerra al relativismo, ritenuto da alcuni il principio di tutti i mali, le ansie legate al terrorismo internazionale e alla situazione economica, il riemergere di Stati autoritari sulla scena globale: oggi come allora la trappola del rifiuto del dialogo è dietro l’angolo. “Per chiunque riesca a vivere – sono ancora parole di Camus – solo nel dialogo e nell’amicizia degli uomini, questo silenzio è la fine del mondo”. E alla fine del mondo l’uomo, se non altro per istinto di difesa e sopravvivenza, oppone la propria rivolta. “Tutti quanti – scrive Camus – ritengono che la propria verità sia adatta a fare la felicità degli uomini. Poi, invece, la congiunzione di tante buone volontà produce questo mondo infernale nel quale gli uomini sono ancora ammazzati, minacciati, deportati, nel quale si prepara la guerra ed è impossibile dire una sola parola senza essere immediatamente insultati o traditi”. La rivolta, intellettuale e umanistica, di Camus sta proprio nell’enorme coraggio di pronunciare quella “sola parola”.

Ribellarsi in nome dell’umano, dunque, per dare sfogo a quello che ne “L’uomo in rivolta” Camus ha definito “il moto stesso della vita” che “non si può negare senza rinunciare a vivere”. E’ una rivolta vitalistica e vitale, che parla di “amore e fecondità” e che si batte contro “la rivoluzione del calcolo che, preferendo un uomo astratto all’uomo di carne, nega l’essere tante volte quanto occorrono e mette appunto il risentimento al posto dell’amore”. Consideriamo il nostro tempo, la nostra società e il ruolo che svolge al suo interno – in politica, nel lavoro, ma anche nelle relazioni parentali – il risentimento. Negarlo, battersi contro di esso, sfidarlo con una rivolta che lo vuole sconfiggere rappresenta una sfida radicale di portata vastissima. Ma come fare? Camus, negli scritti raccolti da Giacopini, una strada la indica: “Oggi quelli che vanno combattuti sono il silenzio e la paura, e con essi la separazione che provocano delle menti e delle anime. Quelli che vanno difesi sono il dialogo e la comunicazione di tutti gli esseri umani”. Perché la paura, per esempio, è certamente alimentata da media e pubblicistica. Ma, almeno in parte, ciascuno di noi ha la possibilità di rifiutarla nella morale pratica della vita. E una somma di piccoli cambiamenti, che siano di comportamento o di mentalità, può dare vita a un’onda lunga che un giorno, forse, potrebbe essere foriera di novità.

Albert Camus, però, nella sua lezione artistica, ha scritto anche di un’altra forma di rivolta, molto legata a quella più strettamente politica, ma distinta. La rivolta silenziosa del dottor Rieux ne “La Peste”, quella straordinaria apologia dell’abnegazione, a torto a volte letta come quietista, che il medico di Orano personifica clamorosamente e senza clamori in uno dei più grandi romanzi del Novecento. La malattia che nasce senza apparente causa e che pare non si possa sconfiggere, vista dal nostro punto d’osservazione nel XXI secolo, è ciò che di più postmoderno si possa immaginare. E la ricetta di Rieux, grigio – anti-ideologico, talvolta insignificante eroe borghese – è qualcosa che ha, mi si permetta l’azzardo, la forza rivoluzionaria del messaggio di Cristo: “Qui non si tratta d’eroismo – dice Rieux al focoso Rambert – si tratta d’onestà. E’ un’idea che può far ridere, ma la sola maniera di lottare contro la peste è l’onestà”. Provate a immaginare: mentre tutti sbandierano le loro Verità, un uomo qualunque propone un criterio diverso basato sull’onestà, che non è quella che manca ai mariuoli bensì una categoria del pensiero. Può essere la via alla liberazione, una strada verso quel cambiamento dei cuori che era anche l’oggetto delle riflessioni politiche di Camus, un viatico per l’umanesimo.

Rinunciare alla Verità, accontentarsi di una meno roboante onestà, rigorosamente con la o minuscola, può anche essere un antidoto a una società nella quale il Grande Fratello, quello vero, ci sorride ammiccante da tutti i media e il Regno dei Cieli ci viene promesso su eBay. E’ vero, spesso ci sembra che la peste abbia corroso tutto, che non ci siano più vie d’uscita. Ma Camus è molto chiaro: “Proprio questo – scrive in un testo del 1948 – non posso perdonare alla società contemporanea: essere una macchina per rendere gli uomini disperati. [...] Il mondo in cui vivo mi ripugna, ma mi sento solidale con le persone che vi soffrono”. E la sua solidarietà è un atto di rivolta intellettuale che si declina tanto nelle pagine di indignata denuncia quanto in quelle di stupefacente nitore de “La Peste”.

09 agosto 2009

Verso Est

E' un treno della Mitropa
che entra, sbuffante e gradasso,
al centro della mia memoria DIMENTICANTE
la stessa ruggine adolescenziale
di un Lokomotiv Lipsia o un Carl Zeiss Jena
squadre che RISPLENDEVANO in un Iperuranio
di ragazzino
assai più che nella contemporaneità maleodorante
del pallone ufficiale

L'ispettore, di certo un membro
della MIA Stasi ,
mi rassicura: non sono mai esistite
poi la postilla, detta con fine INDIFFERENZA:
nemmeno tu, in quel freddo 1984
quando alla FINE DEL MONDO restavano solo
due immobili minuti
e nel mio letto sapevo sempre
la bomba all'idrogeno arrivare e poi cadere
ALL'ORIZZONTE

E' strano, in fondo a questo anfratto di ricordi
c'è il multietnico fracasso
del treno il pomeriggio di un sabato,
il primo della stagione dei saldi,
che accoglie russi, peruviani e altri esuli
come me ORFANI d'appartenenze