Un libro sul niente. Così Claudio Magris aveva definito, ovviamente in tono lusinghiero, L’educazione sentimentale di Flaubert. Lo stesso oggi possiamo dire sul romanzo del 1964 di Christopher Isherwood, che Adelphi ha ripubblicato in occasione dell’uscita del film di Tom Ford A Single Man, che al libro si ispira. Uscito per prima volta in Italia nel 2003, Un uomo solo racconta una giornata di George, maturo professore di letteratura in California nei primi anni Sessanta, ancora scosso dalla perdita del compagno Jim, ma comunque sempre alla ricerca di quelle emozioni che, in una parola, costituiscono la vita. Non c’è una trama nel senso classico del termine – e Adelphi parla infatti di un “romanzo per immagini” – e il nodo intorno a cui ruota la vicenda è, tecnicamente, un non-evento, poiché Jim è morto al di fuori dello spazio romanzesco e tutto ruota intorno ad altri non-eventi, come una possibile nuova relazione con un giovane studente, che resta, a quanto ne possiamo sapere, solo immaginata. Eppure, intorno a questo niente, Isherwood tratteggia un personaggio poi difficile da dimenticare, ricchissimo di sfumature e a suo modo scandaloso. Insomma, perfetto per il film di Tom Ford e per l’interpretazione di Colin Firth.
Il romanzo è molto fisico, e molto franco, e si regge su una sorta di reinterpretazione del monologo interiore, più spinto nella prima parte e più diluito nella seconda, ma sempre con il saldo controllo dell’autore che ci spinge nei meandri della personalità di George con mano leggera, apparentemente equidistante. “George è diverso – scrive Isherwood in una frase decisiva per capire il personaggio – perché, in un senso che non si sa bene come definire, ma che salta immediatamente agli occhi vedendolo nudo, non ha rinunciato”. Ecco, forse a volte anche il lettore non sa bene definire il romanzo, ma la sua forza emerge con chiarezza dietro le semplici descrizioni (per esempio delle autostrade di Los Angeles o della minaccia dei missili nucleari della Guerra Fredda) e la maestria di Isherwood è proprio quella di governare tutta questa materia come se niente fosse, con quella stessa naturalezza che si chiederebbe a un attore chiamato a impersonare un ruolo complesso.
George è a volte spietato, a volte cinico. Ma lo è soprattutto con se stesso, e questo lo rende un personaggio al di sopra della media e “Un uomo solo” è sì un romanzo dolente, ma anche di sorprendente, assurda, irrinunciabile vitalità. Viene da pensare che, in qualche modo, si avvicini alla forza dello scandaloso e magnifico Teatro di Sabbath di Philip Roth, pur mantenendo una distanza fondamentale nella misura dei personaggi: tanto il burattinaio ebreo era un satiro predatore e qualunquista (seppur immenso e shakespeariano), tanto il professore omosessuale è elegante e acculturato. Sotto di loro però, e qui si torna anche a Flaubert, brucia la vita, nella sua inesausta complessità. “Non posso parlare per gli altri – dice George al giovane Kenny – ma per quel che mi riguarda nulla mi ha fatto diventare saggio”. E quando il ragazzo gli chiede se l’esperienza è inutile, lui risponde: “Dico solo che uno non se ne fa niente. Ma se non ci prova nemmeno, se si limita a sapere che esiste, e che la si possiede… allora può essere meravigliosa…”. Il libro è tutto qui, scusate se è poco.