I libri di Harold Bloom e sono strabordanti di rimandi e connessioni, anche quando hanno una misura non certo monumentale come in questo caso. L'argomento poetico, però, ha anche il merito di sedare, almeno in parte, la furia metodologica del prominente studioso, che ha infarcito le sue opere precedenti di rabbiosi monologhi contro quelle che, secondo lui, sono le degenerazioni di genere piuttosto che razziali della critica accademica americana. Qui di certe prese di posizione si avverte solo una flebile eco, e il libro ne risente in positivo, come se la bellezza dell’argomento avesse anche la forza di rendere più sereno l’approccio di Bloom.
Entrando nel merito del testo, il critico fornisce subito una interessante definizione della poesia: "E’ essenzialmente linguaggio figurato, condensato in modo tale che la sua forma sia espressiva e al contempo evocativa". Quindi Bloom passa all'analisi del "funzionamento" della composizione poetica: ecco allora fare la propria comparsa la memoria poetica, che permette il "riconoscimento", ossia il punto chiave del pensiero applicato alla letteratura. Con esempi presi pressoché in toto dalla poesia anglofona – sebbene Bloom abbia posto al centro del suo Canone, secondo solo a Shakespeare, il fiorentino Dante – il critico apre al lettore il terreno decisivo dell’allusività, sul cui campo di battaglia Bloom misura la maggiore o minore grandezza di un’opera in versi. Il passo successivo è poi quello di arrivare all’empireo dei poeti, dove regna sovrana l’inevitabilità. Dell’Alighieri non si parla mai direttamente in questo libro, ma lo schema logico costruito da Harold Bloom, in qualche modo, ricorda la geografia teologica della Commedia. Forse anche questa è una dimostrazione dell’uso dell’allusione.
Di carattere assolutamente straripante, Bloom non si esime certo dal giudicare i poeti, ed eccolo stroncare un mostro sacro come Edgar Allan Poe: "So recitare Poe a menadito, perché i suoi sono versi scontati, meccanici e ripetitivi. Quando conosco una grande poesia a memoria, accade perché l’opera è inevitabile, perfettamente realizzata e realizzabile". Un esempio, preso quasi a caso, dall’Ulisse di Tennyson: “Molto perdemmo, ma molto ci resta: non siamo la forza / più che nei giorni lontani moveva la terra e il cielo: / noi, s'è quello che s'è”. Cullati da queste mirabili parole, ecco che si profila una parola kantiana che pochi critici hanno il coraggio di scrivere oggi: il sublime. Che nasce, conclude Bloom in un crescendo di passione che ricorda l'entusiasmo con cui il professore de "L'attimo fuggente" declamava i versi di Walt Withman, dalla "stranezza" poetica che deriva "dal contatto con un tipo di coscienza diverso dal nostro" (Owen Barnfield) e spiana la strada alla conclusione: "La missione della grande poesia – scrive Bloom – è dunque di aiutarci a diventare liberi artefici di noi stessi. [...] L'arte di leggere la poesia è un autentico esercizio di accrescimento della coscienza, forse il più autentico fra tutti i modi salutari".