E’ anomalo fin dalla confezione il terzo libro di Carlo
Pizzati. Infatti Il passo che cerchi (Edelweiss edizioni) è una raccolta di
racconti – ma l’autore li definisce, già dal sottotitolo, “resoconti letterari”
– ibridata con una serie di fotografie narrative, che fanno da significativo
contrappunto, o compendio a seconda dei casi e della sensibilità dei lettori,
ai testi. L’aspetto e la dimensione sono quelli di un libro fotografico (il che
lo rende un oggetto moderatamente inadatto alla lettura in luoghi molto
affollati), ma il contenuto è ribollente di letteratura, che, in omaggio a
Perec e all’OuLiPo, movimento a cui alcuni testi sono ufficialmente ispirati,
appare qui più che mai una forma di istruzioni per l’uso della vita. Senza
intenti didattici, naturalmente, ma con quella forza esemplare che le buone
narrazioni portano implicita con sé. Se a ciò si unisce quella che è forse la
peculiarità di tutte le 14 storie, ossia il costante gioco di specchi che
genera una confusione di piani tra il narratore e il narrato e, per estensione,
tra il resoconto (ma noi, discepoli di Barthes, continuiamo a credere che ogni
resoconto sia, per sua stessa natura anche un racconto, con le sue regole
strutturali e la sua componente, in questo caso spesso mirabile, di
costruzione) e il lettore, assalito anche dalla magia segreta delle fotografie,
ecco che si capisce il fascino di quest’opera che, come si diceva, appare
magneticamente anomala. E, in un panorama letterario italiano che per larghi
settori appare appiattito su poche posizioni codificate, si capisce come la
stessa parola “anomalia” porti con sé l’aggettivo “interessante”.
Dopo essersi misurato con il reportage letterario
(Tecnosciamani) e con il romanzo di formazione (l’ottimo Criminàl), questa
volta Carlo Pizzati scende sul terreno della narrazione breve, a volte
brevissima, secondo Faulkner la “forma poetica” più difficile per uno
scrittore. E lo fa andando a scavare dentro il proprio personale vissuto – tanto che a volte si ha la sensazione di
essere di fronte a un autore che si mette a nudo – o ancora nella scienza
(matematica soprattutto) e nella suggestione letteraria. Con un coraggioso inizio,
nella sezione Mondo che precede Cifre e Carte d’identità, che spinge
fortemente su una parola, “fratellanza”, che lo stesso scrittore veneto (ma in
realtà cosmopolita inquieto e in perenne ricerca) ritiene la più trascurata tra
le tre idee che la Rivoluzione francese assurse a proprio slogan. Il fatto di
insistere sulla “parola”, che svela mondi di idee e di uomini, sembra essere
uno dei possibili fili rossi dell’intero libro, e qui forse rientra in modo
decisivo il ruolo delle immagini, che provano a contrastare, completandolo, il
messaggio scritto. Ma tutto in Pizzati non è semplice come potrebbe apparire, e
così scopriamo che in una fotografia di una piccola barca nell’India del Sud,
persa nel grande mare dell’inquadratura, i pescatori sembrano a loro volta
comporre la parola “Tamil”… come a dire che poi è sempre lì, al segno, che si
finisce per tornare. (“Se le parole fossero sostanze chimiche – leggiamo in un
altro resoconto – si sentirebbero continue esplosioni”).
Tra storie filosofiche o incastonate in una struttura
matematica che tanto somiglia alla metrica e narrazioni circolari come un
dipinto di Escher (citare Borges rischia di sembrare banale, ma di questa
grande lezione stiamo parlando), il lettore approda ai due testi più lunghi che
chiudono il libro. E se in Herr Hawthorne e Danilo Parise al cinema Edison la
sotterranea citazione è perfino vertiginosa (e alla fine il mondo sembra,
seppur di pochissimo, diverso da quello che conoscevamo prima), in Il passo
che cerchi Pizzati ci porta, come è giusto che sia in un racconto (e qui non
temiamo smentite nell’uso del termine) a una frase finale di climax che è al
tempo stesso il culmine e la spiegazione di sensazioni e frammenti che avevamo
raccolto, forse perfino inconsciamente, nelle pagine precedenti. E che portano
lo stesso lettore a trovare il proprio passo dentro questo libro (e tutti gli
altri).