A leggere troppo Philip Dick si può finire male. Ogni cosa
sembra dover avere un motivo occulto e ogni persona si mostra per quello che è:
una potenziale "formica elettrica", un androide arrivato da chissà
dove e con il quale è semplicemente inimmaginabile pensare di poter comunicare,
dato che la sua indifferenza è così immensa da sfiorare il misticismo. Un
androide che però sa qualcosa e se lo porta dentro come una condanna, mentre
fuori non fa altro che piovere, i tassisti sono assassini e le giornate si accorciano
anziché allungarsi. Dick aveva un problema con la realtà, e lo analizzava,
neanche fosse Kant (a ben vedere era senza
dubbio Kant, ed è divertente pensare a come doveva sentirsi il filosofo
tedesco dentro il corpo prominente e soprattutto dentro i vestiti californiani
di PKD), andando a puntare la più profonda delle antinomie della ragione: la
non esistenza, o meglio l'impossibilità di testimoniare (si dovrebbe dire
dimostrare) l'esistenza, del mondo in assenza della nostra facoltà percettiva.
Il mondo siamo noi, se noi non ci siamo non c'è neanche il mondo, se noi non ci
siamo non esiste la
realtà. Siamo a metà strada tra l'insostenibilità di Kundera
e il destino - unico e universale - di Donny
Darko. Siamo sul versante più ripido dell'ermeneutica, quello dove il vento
batte sempre a 100 all'ora, la parete montuosa è praticamente liscia e tu devi
attraversare il crinale senza appigli e pure con gli occhi bendati. L'inferno
dell'interpretazione, il regno collettivo dove ognuno è feudatario plenipotenziario
della propria personale contea, che però percepiamo come appartenente a tutti.
La conseguenza, direbbe Douglas Coupland, è una ininterrotta
serie di piccole fini del mondo, ognuna irrisoria e definitiva al tempo stesso,
tante piccole guerre nucleari segrete, combattute da impiegato oscuri nel
chiuso delle loro stanze male illuminate. Ma se la fine del mondo è
assolutamente relativa, che speranza abbiamo che qualcosa sia, almeno
relativamente, assoluto? Qui Kant si è arreso (almeno nella Ragion Pura, l'unica Critica veramente
rivoluzionaria, veramente decisiva), qui Dick ha inventato una serie di altri mondi talmente
delirante da giustificare il florilegio di Apocalissi, tentando forse, nel
moltiplicarle, di relativizzarle e, soprattutto, circoscriverle. Se nella testa
di ogni persona che stasera in metropolitana indossa un berretto di lana (e
sono decisamente tanti, un'anomalia statistica talmente evidente da essere
sospetta, nel senso che l'Architetto della nostra personalissima Matrix può avere commesso una tale
leggerezza solo volontariamente, e dunque quale sarà lo scopo, perché di certo
ce ne deve essere uno, di questo grossolano errore di calcolo probabilistico?)
se nelle loro teste, dicevo, e solo nelle loro, ragionando per difetto, ci sono
diversi possibili universi, che a loro volta si incrociano con le loro stesse
variabili accidentali, dovute ai costanti riposizionamenti delle personalità di
ciascuno, e per ciascuno di questi universi l'esistenza stessa è ridiscussa di
giorno in giorno, addirittura di ora in ora, ecco che la frequenza della
scomparsa di questi universi, completi e con la stessa possibilità di realtà
degli altri – nonché di quello che è l'universo che consideriamo
"reale" - necessariamente riconsidera la portata di una parola,
Apocalisse, e ci mette di fronte a un onesto tentativo, fallace come ogni
altro, ma filosoficamente molto acuto, di rispondere al problema fondamentale
dell'esistenza, umana come di qualsiasi altra razza "aliena".
Libera nos a malo,
qui come in qualunque altra galassia.