Un corvo mangia qualcosa di insanguinato nel
mezzo di una mattina ventosa di primavera nel parco di Russell Square a Londra.
Il cielo sopra Seattle, obliquo e incupito come sempre. Un ragazzo, un
vagabondo, sulla riva di un fiume che tenta di pescare in maniere grottesche.
La notte, da quella zona, arrivano delle urla indefinibili. Una fila di persone
in coda per il concerto, come se gliene importasse davvero qualcosa. Qualcuno
che gli diceva Tu sei un simbolo, sei una
cosa loro, adesso. E allora rispondere: "È sempre così. C'è sempre
qualcuno che si aspetta qualcosa da te, nel senso che si aspetta tu faccia
qualcosa. È una specie di regola del cazzo ed è uno dei motivi per cui il mondo
è uno schifo". Tutto questo,
realtà e fiction, ricordi personali e storie immaginarie, canzoni, odori,
impressioni. Tutto quello che non è mai stato. E poi un garage, sempre un garage, un fottutissimo garage del cazzo. Amen.
Tutto finito. Vent'anni fa. Come se niente fosse. E anche io me lo ricordo quel
pomeriggio triste, sul ciglio di una strada a contemplare l'America. Si
presentarono i miei 40 anni, e un contratto col nulla. E ovviamente firmai, col
mio nome firmai.
Come si fa a scrivere un pezzo sul
l'anniversario del suicidio di Kurt Cobain? Si dovrebbero passare due settimane
ascoltando ininterrottamente la musica dei Nirvana, riguardando i video e le
registrazioni live, traducendo i testi e spulciando le molte interviste, coeve
o postume, ai componenti della band. Si dovrebbe sapere molto della storia del
rock e delle sue vedette maledette.
Il Club delle rockstar morte a 27 anni
e le loro storie eccessive. Magari si dovrebbe anche possedere una chitarra, o
per lo meno andare a pranzo, di tanto in tanto, con un amico
che sa tutto di Mark Knopfler. Chissà. Io, personalmente, ho scelto di
aggrapparmi a quel poco che so, a quel terreno che ancora codifico,
ingenuamente, come "casa". Ho scelto di citare T.S. Eliot e il suo
celeberrimo incipit: "Aprile è il più crudele dei mesi",
compiaciuto del fatto che anche l'immagine seguente del poeta, con le ossa che
in primavera tornano a spuntare dal terreno, avesse una sua coerenza
intrinseca. Ho scelto di puntare tutto su Tommaso Pincio e sul suo struggente Un amore dell'altro mondo, romanzo che
ha Cobain presente in duplice veste, come personaggio e come spirito di fondo
del libro. Un Kurt ragazzo che dice al suo amico immaginario: "Anch'io
sono stato un alieno da bambino. Ero convinto che mio padre e mia madre non
fossero i miei veri genitori. Mi ero messo in testa di venire da un altro
pianeta. Volevo venire da un altro mondo. Con tutta l'anima. Di notte mi
affacciavo alla finestra e mi mettevo a parlare con i miei veri genitori. La
mia famiglia in cielo. La vera famiglia". Ho scelto di immaginarmi i cambi
di ritmo di Heart-Shaped Box e la
loro ricorsività finta, i cambiamenti disturbanti tra una strofa e l'altra, le
angosce segrete degli strumenti musicali che dovevano seguire il flusso di
coscienza sonoro di Cobain. Ho scelto di raccontare di come una sera, al
termine di uno spettacolo che al pubblico sembrava essere piaciuto molto, sono
andato in un bar di provincia da solo ad annegare nella birra i troppi
complimenti e le manifestazioni di affetto ricevute. Perché erano quello che
avevo sempre desiderato, e quello che avevo sempre desiderato si rivelava in
realtà anche assurdo e grottesco. Ridicule.
Se queste sono le premesse - ovviamente mie e arbitrarie - mi chiedo che razza
di inferno debba essere fare sul serio la rockstar. Roba da
suicidio.
In fondo l'ambivalenza di tutte le situazioni,
lungi dall'essere una scoperta epocale, sia ben chiaro, sembra però una delle
possibili cifre della storia dei Nirvana e del loro tormentato frontman, che
indossava la nota T-shirt
con scritto I hate Myself and I want to
Die, ma che, a chi glielo chiedeva, e pare fossero in tanti, rispondeva
sempre che era uno scherzo, uno stupido
scherzo. Anche pochi giorni prima di spararsi in testa con il fucile, con
tanta violenza, raccontano le cronache spietate, da non lasciare elementi per
avere la certezza, a vista, che quel corpo ritrovato senza vita fosse proprio
quello di Cobain. E poi il biglietto d'addio che diceva due volte I Love You. E ancora, nelle sue canzoni,
la coesistenza delle nuove rimostranze da gridare a gran voce (I've got a new complaint) prima però di
ripiegare sul disagio intimo e universale (All
alone is all we are). Persino la data di morte è ambivalente in Kurt
Cobain: per il mondo vale l'8 aprile 1994, quando si aprirono le porte del
garage e la notizia fece in poche ore il giro dei cinque continenti. Ma per i
medici legali il decesso è datato 5 aprile, però nessuno ne ha la certezza
(neppure l'implacabile Wikipedia) e i fan, in fondo, non hanno un vero e
proprio anniversario da ricordare (o forse ne hanno due, cosa che, al tempo
stesso - altra ambivalenza - amplifica il dolore, ma pure offre doppio spazio
alle celebrazioni più morbose...). Tutto insomma è nebbioso intorno a Kurt,
perfino il successo. I'm not there,
dicevano di Bob Dylan.
Il successo, per l'appunto. Per i Nirvana ha
un nome: Nevermind, 1991. Il botto
planetario, l'invenzione di un etichetta, che aveva anche la devastante
presunzione di raccontare un modo di essere: il Grunge. Incasellare, definire, normalizzare. Questo desidera sempre
fare l'Idra della divulgazione mediatica, abbattere la complicazione e lasciare
che tutto continui a scorrere tranquillo e rassicurante, pur con le necessarie
(obbligatorie perfino, quindi normate
pure queste) trasgressioni. "Lo spettacolo - scriveva Guy Debord - è il
cattivo sogno della società moderna incatenata, che non esprime in definitiva
se non il suo desiderio di dormire. Lo spettacolo è il guardiano di questo
sonno".
E il flusso dei dormienti - e qui mi viene in mente un altro romanzo che forse
non è stato capito, Manuale di
investigazione di Jedediah Berry - arriva a osannare Nevermind e a fare dei Nirvana facce perfette per il marketing
globale. Il successo e il suo prezzo. La consacrazione e l'espiazione.
Un'operazione quest'ultima che dura due anni e porta a In Utero, il terzo e ultimo album della band. "Si può parlarne
- ha detto Grohl a Rolling Stone nel
2013 - come di un risultato magnifico, oppure come di un momento davvero di
merda". Ancora Debord: "Lo spettacolo è il momento in cui la merce è
pervenuta all'occupazione totale della vita sociale. Non solo il rapporto con
la merce è visibile, ma non si vede più che quello".
Per i Nirvana, Nevermind era
diventato merce, e In Utero doveva
essere la risposta, situazionista se volete, alle loro angosce per quanto era
accaduto e continuava ad accadere. "Volevamo tornare a essere la band che
eravamo, quella che ci era stata portata via dal successo di Nevermind”,
ha chiosato Dave Grohl, e per farlo si sono affidati a Cobain, ai suoi testi
disperati, al suo amore e odio (ambivalenza) per se stesso e per gli altri.
Krist Novoselic, il terzo Nirvana, l'amico e il simbiotico di Kurt, ha colto il
problema, dopo il suicidio del leader, raccontando di come amasse Cobain e di
come odiasse chi lo aveva ucciso. Ma in questo caso - e la dinamica si ripete
identica nell'amicizia tra Franzen e Foster Wallace - la vittima e l'assassino
erano la stessa persona.
E allora che cazzo si
fa?