ovvero
Un discorso politico sulla
prossima Biennale d'arte
Pioveva quando sono salito,
parecchi anni fa, sull’eliporto della Pirelli alla periferia di Milano per
intervistare Tomas Saraceno, l’artista argentino che di lì a qualche mese
avrebbe portato in HangarBicocca una delle sue più celebri installazioni,
quella Schiuma spazio temporale dentro la quale il pubblico si sarebbe potuto addentrare come in
un fantastico gonfiabile iper contemporaneo e giocosamente straniante. Abbiamo
parlato di scienza e arte, di innovazione tecnologica e visioni, mentre in
fondo alle nuvole spuntava lo skyline di una città in corsa verso la
sua nuova vita. Pioveva anche quando ho visitato per la prima volta la Biennale
d’arte del 2013, quella di Massimiliano Gioni, che in seguito avrei incontrato
parecchie altre volte, restando sempre affascinato dal suo modo di pensare per
contenitori più che per contenuti, con una abilità elastica notevolissima.
Oltre che dalla sua ambizione di sapere tutto, che in qualche modo è diventata,
in maniere spesso antitetiche, una delle cifre più vere del contemporaneo.
Ho ripensato a quei due
momenti, estremamente interessanti nelle loro difficoltà, mentre cercavo una
via d’ingresso a un pezzo decente sulla nuova Biennale d’arte, quella del 2019
curata da Ralph Rugoff, che è stata presentata a Venezia all’insegna dello
slogan “May You Live In Interesting Times” (Che Voi Possiate Vivere In Tempi Interessanti) che, mi sono reso conto - con lentezza, ma con altrettanta
chiarezza - è probabilmente il più bel titolo di una Biennale da parecchio
tempo a questa parte. Ovviamente, essendo mutuato da un proverbio cinese, ossia
una forma letteraria fatta apposta per andare bene in qualsiasi contesto, il
fascino deriva soprattutto dalle circostanze nostre, dal tempo in cui viviamo,
oggi, in Italia (ma non solo, il mondo è piatto, diceva Thomas Friedman, e
anche piccolo in un certo senso). Ma ciò non toglie che l’effetto di questo
augurio sia una specie di prospettiva, di possibilità, un’immagine di futuro
riscatto. Come per la Biennale di architettura di quest’anno, curata dalle
irlandesi Shelley McNamara e Yvonne Farrell, che è dedicata al “FREESPACE”,
pensando a Venezia si pensa a un’idea complessa di libertà che, lo scrivo con
il massimo understatement possibile, è il meglio che ci possa capitare (insieme al
desiderio e a leggere per sempre Philip Roth, naturalmente).
Il discorso è politico, per
quanto mi terrorizzi l’idea di fare un qualsiasi discorso
politico, ma la verità è che ogni volta che incontro Paolo Baratta penso che
dica cose che sarebbero perfette per un presidente del Consiglio (e quando
glielo ho detto direttamente ha fatto finta di non sentire, il che, ne sono
convinto, è una sorta di tacita conferma, quindi la speranza non è ancora
naufragata, mi dico) e perciò il discorso politico lo lascio fare a lui. “Noi –
ha detto nella dichiarazione ufficiale - siamo fedeli al principio che
l’istituzione deve essere una macchina del desiderio volta a tenere sempre alto
e fermo il bisogno di vedere di più, di quel vedere di più nel quale ci aiuta
l’arte. Ma allo stesso tempo la Biennale deve essere il luogo nel quale il
singolo visitatore sia fortemente cimentato nel confrontarsi con l’opera
d’arte. L’istituzione, i luoghi, le opere convocate dal curatore, la loro
dislocazione nello spazio, il clima che l’istituzione sa creare, tutto deve
concorrere a costruire condizioni favorevoli perché il visitatore si senta
ingaggiato di fronte alla singola opera che incontra, quasi fosse su una pedana
per un incontro di scherma”. Ovvietà, direte. Va bene, aggiungo pure che sono
state pubblicate in uno dei “luoghi” del presente più paludati: un comunicato
stampa. Ma il punto è proprio qui: la palude oggi è quello che c’è fuori o intorno
al comunicato stampa, la palude è il presente reale (nel modo in cui si diceva
una volta il Paese reale), la palude siamo noi. E i concetti che questo signore
elegante e potente (ma segretamente scanzonato) continua a ripetere dall’alto
del suo ruolo (un ruolo politico, ricordiamocelo, e se volete fate i vostri
liberi confronti), a volte con reiterata ostinazione, sono semplicemente quello
che dovrebbero essere: un modo per “tenere alto e fermo il bisogno di vedere di
più”. Punto, non serve altro. Il meglio che potremmo augurarci. Che noi
possiamo costruire tempi interessanti, nei quali qualcun altro, il “voi” del
proverbio cinese o del titolo della Biennale ventura, possa vivere,
ragionevolmente meglio. Anche (e perché no, soprattutto) attraverso l’arte.
Bum!
Pioveva anche la sera che ho
preso parte, per la prima volta e dopo averlo a lungo ambito, al cocktail
stampa inaugurale di una Biennale, quella d’arte del 2017. Dal balcone di Ca’
Giustinian, al centro di un piccolo mondo molto autoreferenziale (noi maschi
avevamo quasi tutti la barba brizzolata, per dirne una), guardavo il mio quarto
bicchiere di spritz e la chiesa della Salute nella luce blu metallo della sera
che iniziava a scendere sul Canal Grande. Non ci poteva essere nulla di più
scontato (insomma, forse le cartoline ritoccate del San Marco e Rialto con i
gondolieri, quelle sì), nulla di più istituzionale. Ma, ancora una
volta, il punto è esattamente questo: quando è una istituzione così
apparentemente leggibile e consolidata a dare messaggi fortissimi (poi le
mostre, gli artisti, i padiglioni, i curatori, tutto può essere opinato e
criticato, ma non è di questo che sto scrivendo adesso), messaggi rivoluzionari in modo molto pratico, allora vuol dire che, nonostante tutto,
c’è un’altra e diversa possibilità: ossia che ci siano tante altre possibilità.
La magnifica e terribile bellezza
della complessità. La libertà della complessità. La rivendicazione della
complessità. Così, credo, si iniziano a costruire tempi davvero interessanti.
Che possono essere i nostri.
Leonardo Merlini
© Kilgore Magazine