Un libro di straordinaria acutezza e animato da vera passione e due dvd con altrettanti grandi film: "I quattrocento colpi" e "La signora della porta accanto". E' un omaggio affettuoso a Francois Truffaut quello che l'editore Minimum fax manda in libreria in questi giorni con il titolo di "L'uomo più felice del mondo": un cofanetto che unisce il libro "Il piacere degli occhi" - con tutti i testi critici del grande regista francese - e i dischi con il suo primo e uno dei suoi ultimi lavori. Un omaggio che è una chicca per i lettori amanti del cinema, ma anche per coloro che, da semplici appassionati, vogliono riscoprire il fascino della settima arte con una guida d'eccezione come Truffaut.
Critico cinematografico prima di intraprendere la carriera di regista, Truffaut negli anni ha scritto molto, ed è stato tra gli animatori della mitica rivista "Cahiers du cinema", alla cui definizione della "poetica degli autori" ha contribuito attivamente. "In assoluto - scrive Truffaut nel primo testo della sua raccolta - possiamo affermare che l'autore di un film è il regista, e lui solo, anche se non ha scritto una sola riga della sceneggiatura, non ha diretto gli attori e non ha scelto l'angolatura delle riprese". Più avanti Truffaut chiarisce meglio la sua affermazione: "Il successo non è dato dalla somma di elementi diversi come bravi interpreti, buoni soggetti, bel tempo, ma è legato alla personalità dell'unico e vero 'comandante in capo'". Una personalità, quella di Truffaut, che dalle pagine del libro emerge come vitale, intraprendente, esuberante e ironica ma, soprattutto, innamorata del cinema. E le pagine trasmettono questo amore anche al lettore di oggi, benché si tratti di testi redatti anche negli anni Cinquanta.
Gli articoli raccolti in "Il piacere degli occhi" si articolano in diverse sezioni dedicate al "cinema in prima persona", agli omaggi ai grandi dello schermo, alla celebrazione dei divi, alla letteratura interpretata dai film e anche a un poco di polemica che "non fa mai male". Prima dell'epilogo, che da il titolo al cofanetto: "Ecco perché sono il più felice degli uomini - scrive Truffaut - realizzo i miei sogni e sono pagato per farlo, sono un regista". Filmaker di qualità dunque, ma anche critico acuto, capace in poche righe di sintetizzare la rivoluzione portata dal cinema americano: "Louis Lumière aveva impressionato il pubblico grazie a riprese di tipo documentario: 'L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat', 'Barche che escono dal porto'; ma gli americani avevano capito molto presto che bisognava far deragliare il treno e rovesciare la barca allo scopo di oltrepassare la quotidianità, e da allora sono diventati i campioni incontestati del cinema di fiction".
Charlie Chaplin, Robert Bresson, Alfred Hitchcock, Jean Renoir, Orson Welles: nelle pagine di Truffaut passano i grandi autori del cinema mondiale, guardati con l'occhio attento dell'esperto (che scrive, a proposito dell'identificazione dei personaggi di "Quarto potere": "Mi interessa non la realtà, ma l'opera in pellicola"), ma anche con una tenerezza che ai critici tradizionali (di cui Truffaut elenca con ironia pungente i sette peccati capitali) spesso manca. Così come manca la leggerezza con cui Truffaut confida le proprie emozioni di attore sul set di "Incontri ravvicinati del terzo tipo" o la propria simpatia anti-snobistica per i grandi divi che, secondo lui, "non sono creati da produttori e registi, bensì dal pubblico".
Insomma, il libro di Truffaut è un elogio del cinema e dei suoi autori, ma anche un percorso attraverso le passioni di un uomo curioso che ha cercato di interpretare con la macchina da presa il nostro mondo. E il cui messaggio, artistico e umano, resta sempre molto attuale.
24 agosto 2006
17 agosto 2006
Caro Pedro, ti scrivo
“Tutto su mia madre”, “Parla con lei” e poi, per la seconda volta al cinema, anche “Volver”. Approfittando di quattro giorni di solitudine mi sono concesso un'overdose di cinema, nella quale spiccano i tre grandi film di Almodovar. E proprio al regista mancego indirizzo questa ideale missiva di un ammiratore tanto tardivo quanto convinto.
Che meraviglia, caro Pedro, quelle donne che passano attraverso il peggio della vita con così tanta forza e leggerezza. Che splendore i colori, le musiche, gli orrendi programmi televisivi di cui ci racconti nei tuoi film. Che tenerezza – e che lezione di vita – nelle pacate reazioni all’orrore e alla follia. Che preziosa serenità che emerge dai marosi spaventosi della realtà.
E’ un cinema, il tuo, che riconcilia con il presente, che a me dice che si può guardare qualsiasi cosa, anche la peggiore, provando a trovare un brandello di positività. Sarà anche una consolazione fittizia, perché nella rotonda delle battone di Barcellona non capiterà tutte le volte di incontrare la propria amica del cuore, ma comunque riempie il cuore. Come le calze gambaletto di Carmen Maura o la finestra che dà sulla scuola di danza classica di Geraldine Chaplin.
Caro Pedro, non so se il cinema debba “servire” a qualcosa. A me il tuo serve di certo a ritrovare quell’ottimismo che a volte le circostanze del quotidiano mi fanno dimenticare.
Sempre tuo, Kilgore
Che meraviglia, caro Pedro, quelle donne che passano attraverso il peggio della vita con così tanta forza e leggerezza. Che splendore i colori, le musiche, gli orrendi programmi televisivi di cui ci racconti nei tuoi film. Che tenerezza – e che lezione di vita – nelle pacate reazioni all’orrore e alla follia. Che preziosa serenità che emerge dai marosi spaventosi della realtà.
E’ un cinema, il tuo, che riconcilia con il presente, che a me dice che si può guardare qualsiasi cosa, anche la peggiore, provando a trovare un brandello di positività. Sarà anche una consolazione fittizia, perché nella rotonda delle battone di Barcellona non capiterà tutte le volte di incontrare la propria amica del cuore, ma comunque riempie il cuore. Come le calze gambaletto di Carmen Maura o la finestra che dà sulla scuola di danza classica di Geraldine Chaplin.
Caro Pedro, non so se il cinema debba “servire” a qualcosa. A me il tuo serve di certo a ritrovare quell’ottimismo che a volte le circostanze del quotidiano mi fanno dimenticare.
Sempre tuo, Kilgore
04 agosto 2006
In the land of Wenders
Non mi ricordo chi l’ha scritto, ma è sicuramente vero che nei suoi film Wim Wenders si prende cura delle immagini e le lascia allo spettatore solo quando sono perfette in ogni dettaglio, come tesori che solo la mano dell’archeologo esperto riesce a riportare al loro antico splendore. Ho visto recentemente in dvd due pellicole ritenute “minori” nel repertorio del regista tedesco: “La terra dell’abbondanza” (Land of Plenty) e “Non bussare alla mia porta” (Don’t come knocking), due film simili, che parlano di personaggi solitari e di un’America marginale. Due film che raccontano storie la cui trama forse non vale il premio Pulitzer, ma che hanno una storia visiva, una fotografia, uno sguardo – per dirla in una sola parola – stupefacente.
Non ci sono la metafisica degli angeli berlinesi né il silenzio carico di aspettative di “Alice nelle città” (capolavoro del Wenders prima maniera), ma in compenso le ultime due prove americane del regista hanno immagini cariche di umanità (diremmo di pietà, ma nel senso di pietas romana, non di semplice compatimento-da-serata-di-beneficenza e sdegno-per-come-va-il-mondo), poeticamente ineccepibili, capaci di commuovere per la loro vivida sobrietà.
E’ un cinema che a volte sembra non muoversi, quello di Wenders. Ma è un immobilismo mirabile, come quello che coglie il protagonista di “Non bussare alla mia porta” seduto per ore su un divano dai colori sgargianti che il suo appena ritrovato figlio trentenne ha gettato per strada in un eccesso di furia, una volta scoperta l’identità di suo padre. Nel vorticare di una vicenda intricata di affetti ritrovati e antichi rancori, il maturo divo del cinema western si siede e si ferma – proprio nel cuore del ciclone – in un’implicita ammissione di inutilità della lotta e, al tempo stesso, di piena assunzione delle proprie responsabilità. Insomma, si ferma – dopo tanto fuggire - nell’unico posto in cui deve farlo, anche se è molto difficile.
Se penso a “La terra dell’abbondanza”, invece, non riesco a dimenticare il modo in cui Wenders filma le periferie degradate, i luoghi dove vivono gli homeless, i sudici scantinati dove si addensa la paranoia. Ma neppure la tuta verde indossata dal fratello del giovane islamico ucciso o le luci del tramonto sulle highway. Wenders può non piacere, e forse è stato sopravvalutato. Ma i suoi film hanno la forza di fare innamorare del cinema come modo di guardare al mondo. Almeno questo vale per Kilgore.
Non ci sono la metafisica degli angeli berlinesi né il silenzio carico di aspettative di “Alice nelle città” (capolavoro del Wenders prima maniera), ma in compenso le ultime due prove americane del regista hanno immagini cariche di umanità (diremmo di pietà, ma nel senso di pietas romana, non di semplice compatimento-da-serata-di-beneficenza e sdegno-per-come-va-il-mondo), poeticamente ineccepibili, capaci di commuovere per la loro vivida sobrietà.
E’ un cinema che a volte sembra non muoversi, quello di Wenders. Ma è un immobilismo mirabile, come quello che coglie il protagonista di “Non bussare alla mia porta” seduto per ore su un divano dai colori sgargianti che il suo appena ritrovato figlio trentenne ha gettato per strada in un eccesso di furia, una volta scoperta l’identità di suo padre. Nel vorticare di una vicenda intricata di affetti ritrovati e antichi rancori, il maturo divo del cinema western si siede e si ferma – proprio nel cuore del ciclone – in un’implicita ammissione di inutilità della lotta e, al tempo stesso, di piena assunzione delle proprie responsabilità. Insomma, si ferma – dopo tanto fuggire - nell’unico posto in cui deve farlo, anche se è molto difficile.
Se penso a “La terra dell’abbondanza”, invece, non riesco a dimenticare il modo in cui Wenders filma le periferie degradate, i luoghi dove vivono gli homeless, i sudici scantinati dove si addensa la paranoia. Ma neppure la tuta verde indossata dal fratello del giovane islamico ucciso o le luci del tramonto sulle highway. Wenders può non piacere, e forse è stato sopravvalutato. Ma i suoi film hanno la forza di fare innamorare del cinema come modo di guardare al mondo. Almeno questo vale per Kilgore.
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