04 agosto 2006

In the land of Wenders

Non mi ricordo chi l’ha scritto, ma è sicuramente vero che nei suoi film Wim Wenders si prende cura delle immagini e le lascia allo spettatore solo quando sono perfette in ogni dettaglio, come tesori che solo la mano dell’archeologo esperto riesce a riportare al loro antico splendore. Ho visto recentemente in dvd due pellicole ritenute “minori” nel repertorio del regista tedesco: “La terra dell’abbondanza” (Land of Plenty) e “Non bussare alla mia porta” (Don’t come knocking), due film simili, che parlano di personaggi solitari e di un’America marginale. Due film che raccontano storie la cui trama forse non vale il premio Pulitzer, ma che hanno una storia visiva, una fotografia, uno sguardo – per dirla in una sola parola – stupefacente.

Non ci sono la metafisica degli angeli berlinesi né il silenzio carico di aspettative di “Alice nelle città” (capolavoro del Wenders prima maniera), ma in compenso le ultime due prove americane del regista hanno immagini cariche di umanità (diremmo di pietà, ma nel senso di pietas romana, non di semplice compatimento-da-serata-di-beneficenza e sdegno-per-come-va-il-mondo), poeticamente ineccepibili, capaci di commuovere per la loro vivida sobrietà.

E’ un cinema che a volte sembra non muoversi, quello di Wenders. Ma è un immobilismo mirabile, come quello che coglie il protagonista di “Non bussare alla mia porta” seduto per ore su un divano dai colori sgargianti che il suo appena ritrovato figlio trentenne ha gettato per strada in un eccesso di furia, una volta scoperta l’identità di suo padre. Nel vorticare di una vicenda intricata di affetti ritrovati e antichi rancori, il maturo divo del cinema western si siede e si ferma – proprio nel cuore del ciclone – in un’implicita ammissione di inutilità della lotta e, al tempo stesso, di piena assunzione delle proprie responsabilità. Insomma, si ferma – dopo tanto fuggire - nell’unico posto in cui deve farlo, anche se è molto difficile.

Se penso a “La terra dell’abbondanza”, invece, non riesco a dimenticare il modo in cui Wenders filma le periferie degradate, i luoghi dove vivono gli homeless, i sudici scantinati dove si addensa la paranoia. Ma neppure la tuta verde indossata dal fratello del giovane islamico ucciso o le luci del tramonto sulle highway. Wenders può non piacere, e forse è stato sopravvalutato. Ma i suoi film hanno la forza di fare innamorare del cinema come modo di guardare al mondo. Almeno questo vale per Kilgore.

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