“Non più guerra tra arabi e israeliani, non più bagni di sangue. Questo era lo slogan quando, a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, Sadat parlò per la prima volta di pace. Secondo me è possibile ripeterlo anche oggi”. E’ un messaggio di speranza per il Medio Oriente quello che l’ex ministro degli Esteri israeliano Shlomo Ben-Ami, protagonista con il premier Barak dei negoziati di Camp David del 2000, ribadisce oggi, pur a fronte di un clima che nella regione sembra farsi sempre più teso. In Italia per presentare il suo vasto saggio storico “Palestina – La storia incompiuta”, Ben-Ami - in unintenso incontro con il vostro Kilgore - chiarisce i termini del suo ottimismo e comunque ne circoscrive chiaramente i confini: “Non si tratta di una pace paradisiaca, non è un discorso che riguarda l’amore tra arabi e israeliani, ma solo il mettere fine alla guerra, creare una pace politica che si basi su confini internazionali precisi. Questo è il massimo obiettivo per la nostra generazione”.
La ricostruzione storica di Ben-Ami prende in considerazione più di un secolo di eventi legati alla presenza ebraica in Palestina e, con dovizia di dettagli, ricostruisce le basi della situazione politica attuale, fino a giungere a formulare una sua proposta per dare il via alla risoluzione del conflitto. In sostanza Ben-Ami considera chiuso il momento delle azioni unilaterali sul modello del ritiro da alcuni insediamenti portato avanti da Sharon e sostiene “un processo di pace totale che sia annesso alla Road Map e porti alla pratica imposizione di essa sui contendenti da parte di una coalizione internazionale di pace guidata dagli Stati Uniti”. In quest’ottica l’ex ministro e ambasciatore propone anche l’istituzione di un “protettorato internazionale” sui territori palestinesi. Si tratta di due problematiche complesse, sia perché gli Stati Uniti sono alle prese con un sempre più difficile impegno in Iraq, sia perché entità politiche come Hamas potrebbero vedere il protettorato come una sorta di nuovo giogo imposto alla loro terra.
“Usa e Hamas – ha ribattuto Ben-Ami – potrebbero essere due forze d’ostacolo sulla via della pace. In precedenza Washington è sempre stata molto gelosa del proprio ruolo di mediatore privilegiato ed ha guardato con sospetto al coinvolgimento di altri Stati. Ma ora le cose sono cambiate: l’esperienza in Iraq ha segnato la fine dell’unilateralismo - se non per Bush, sicuramente per il suo successore – e anche gli Stati Uniti hanno capito che da soli non si vince la pace. Per questo l’adesione americana al Quartetto che ha proposto la Road Map è il segno di un cambio di strategia”. Per quanto riguarda il protettorato, Ben-Ami ha voluto sottolineare che “i palestinesi non sono una tribù sperduta dell’Africa e noi non dobbiamo andare a insegnare loro qualcosa. Ma al momento se io, che pure sono una colomba, fossi primo ministro non accetterei uno Stato palestinese nelle condizioni attuali: troppa anarchia, venti diversi servizi di sicurezza, gruppi che agiscono al di fuori della legalità. Per questo – ha proseguito Ben-Ami – serve una forza internazionale che governi la transizione dell’Autorità palestinese verso forme di statualità più evoluta”. Per fare ciò l’ex ministro ha ipotizzato anche la presenza di una forza di peacekeeping che impedisca azioni come la distruzione degli insediamenti israeliani abbandonati.
Il saggio di Shlomo Ben-Ami tocca anche il tema della democrazia nei Paesi arabi, ed è significativo notare come sia “un’ironia della storia che gli unici arabi al mondo ad avere diritto sovrano di eleggere i propri leader in elezioni pienamente democratiche sono proprio coloro che vivono sotto l’occupazione israeliana”. D’altro canto oggi l’esportazione dei metodi democratici in Medio Oriente aprirebbe probabilmente la strada a una serie di democrazie islamiche. “Non ci sono alternative – ha detto Ben-Ami – alle vittorie elettorali dei movimenti islamici oggi, perché nei Paesi arabi non ci sono le condizioni per il passaggio a una democrazia liberale: mancano la classe media, lo sviluppo economico e c’è troppa disparità tra i ricchi e i poveri. Il problema, comunque, è anche una responsabilità dell’occidente che ha imposto leader concilianti, visti dalle masse arabe come fantocci”. A fronte di queste considerazioni l’ex ministro non vede che una soluzione: “Occorre dialogare con l’Islam politico, distinguendo tra movimenti radicali come i Fratelli Musulmani e partiti che, come nel caso della Turchia o di Hamas in Giordania, partecipano legalmente alla vita politica. Al momento della vittoria elettorale di Hamas – ha aggiunto Ben-Ami – Olmert ha perso l’occasione di scambiare la legittimazione del movimento islamico con un’apertura al dialogo”.
Ben-Ami si definisce un sionista, e nel suo libro avanza una lettura del definitivo successo di questo progetto: “Se Israele – scrive nelle conclusione del saggio – riduce le sue ambizioni territoriali successive al 1967 e riconosce che la fase territoriale del sionismo sia giunta al termine, potrà essere finalmente decretata la vittoria del movimento”. Il concetto, che in Europa o negli Stati Uniti può apparire chiarissimo e lineare, potrebbe essere più controverso in Israele, dove il conflitto e le sue tragiche conseguenze sono una realtà tangibile e quotidiana. “Ma io credo – ha ribattuto Ben-Ami – che oggi la classe politica e la società israeliana siano pronte a fare questo passo. Il premier Olmert nel 2000, quando era sindaco di Gerusalemme e militava nel partito Likud, ha definito traditori noi che trattavamo gli accordi di Camp David. Oggi ha cambiato idea e si spinge a valutare positivamente la proposta rilanciata dall’Arabia Saudita, che è più radicale rispetto al nostro progetto di allora. Il problema – ha aggiunto Ben- Ami – non è stabilire se i governanti hanno capito che i confini del 1967 sono la soluzione, perché lo hanno capito. Il problema è se hanno la volontà e il coraggio politico di mettere in pratica questa soluzione”.
La pace tra israeliani e palestinesi passa comunque attraverso il più ampio discorso della stabilità regionale, che in questo momento appare minacciata anche dalle ambizioni nucleari dell’Iran del presidente Ahmadinejad, nemico giurato dello Stato ebraico. Anche in questo caso però Ben-Ami difende la via diplomatica: “Occorre insistere con le pressioni – ha detto – per mettere Teheran di fronte al prezzo dell’isolamento internazionale, un conflitto tra Usa ed Iran oggi sarebbe devastante per la regione”. L’ambasciatore poi ha nuovamente spostato il discorso sulla Palestina: “L’Iran – ha detto - è il principale nemico del processo di pace, perché vive del conflitto israelo-palestinese. Se questo venisse meno Teheran si troverebbe a essere additato per quello che è, ossia il reale nemico del mondo arabo”.
22 febbraio 2007
05 febbraio 2007
Everyman, di nuovo Philip Roth
“I dilettanti sono alla ricerca dell’ispirazione; gli altri si alzano e vanno a lavorare”. E’ una frase di “Everyman”, il ventisettesimo libro di Philip Roth che esce in questi giorni in Italia, che rispecchia bene il senso di una carriera letteraria, quella di Roth stesso, che con il passare degli anni diventa sempre più ricca e a cui, a detta di molti, manca solo il premio Nobel. Ogni anno Kilgore aspetta tifando che da Stoccolma arrivi il nome dell’ottimo Philip, ma ahinoi, finora le attese sono andate deluse, nonostante la serie infinita di miracoli letterari che lo scrittore ha mandato in libreria dal 1995. Aspetteremo...
“Everyman” è un romanzo che si apre con il funerale del protagonista ed è impregnato del senso tragico del confronto con la vecchiaia e la morte, simboleggiato anche dalla copertina, completamente nera, nonostante da sempre sia il bianco il colore che contraddistingue i libri Einaudi. Salutato dalla critica statunitense come un capolavoro, “Everyman” è un altro tassello di una riflessione sulla mortalità – e di conseguenza anche sul senso della vita – che Philip Roth sta portando avanti già da diversi romanzi, basti pensare a titoli come “Il teatro di Sabbath”, e “L’animale morente”.
Oggi 73enne, Roth racconta in “Everyman” - titolo che in inglese significa qualcosa come “ogni uomo” ed è riferito al nome della gioielleria del padre del protagonista - della solitudine di un uomo di fronte alle malattie, al decadimento fisico e ai fallimenti nella vita privata. Come molti altri grandi scrittori, anche Roth torna in fondo alle tematiche classiche del suo lavoro, nel quale anche in questo caso, non mancano né un’amara ironia né l’irriverenza vitalistica di chi vuole continuare ad affermare la propria esistenza, al di là dell’età biologica. La presenza della morte è comunque tangibile pagina dopo pagina, ma non c’è morbosità o autocompiacimento. “In pochi minuti – scrive Roth in conclusione della magistrale scena del funerale – tutti erano andati via, avevano voltato le spalle, stanchi e lacrimosi, all’attività meno gradita della specie, e lui rimase indietro”. Lui, sia detto per inciso, è il defunto.
La storia del protagonista di “Everyman”, che non ha nome, è quella di un pubblicitario di successo e grande fascino che ripercorre la propria vita e le proprie malattie, i propri amori e le delusioni che ne sono seguite. Come in altri magistrali libri di Roth, anche in questo sullo sfondo aleggia il rimpianto per la perfezione dei giorni dell’infanzia sulle spiagge del New England, ma la riflessione dell’anziano sugli anni passati è inesorabilmente velata di amarezza. E il sentimento più straziante che coglie il protagonista è il rimpianto per i propri errori, che la prospettiva della morte rende, come ogni altra cosa, irreversibili. “Quest’uomo in genere pacato - scrive Roth in un passaggio intenso – ora si batteva furiosamente il pugno sul cuore come un fanatico immerso nella preghiera e, assalito dai rimorsi non soltanto per qualche errore ma per tutti i suoi errori, tutti gli stupidi, inesorabili, inestirpabili errori che aveva commesso”.
“Io non so neanche cosa sia l’ispirazione”, ha detto lo scrittore in un’intervista ad Antonio Monda, e quindi, rifacendosi alla citazione iniziale, non resta che attribuire al grande lavoro di Philip Roth l’impressionante serie di romanzi di primissimo da lui piano pubblicati negli ultimi anni. Forse “Everyman” non raggiunge le vette de “Il teatro di Sabbath” o “Pastorale americana” o “Il complotto contro l’America”, ma resta l’ennesima prova di un talento letterario che ha raggiunto i suoi vertici nel pieno della maturità. E che può permettere a Roth di scrivere candidamente una frase come questa: “Io credevo, dentro di me ne ero certo, che la vita durasse in eterno”. In pratica la sintesi perfetta del principale dilemma umano.
“Everyman” è un romanzo che si apre con il funerale del protagonista ed è impregnato del senso tragico del confronto con la vecchiaia e la morte, simboleggiato anche dalla copertina, completamente nera, nonostante da sempre sia il bianco il colore che contraddistingue i libri Einaudi. Salutato dalla critica statunitense come un capolavoro, “Everyman” è un altro tassello di una riflessione sulla mortalità – e di conseguenza anche sul senso della vita – che Philip Roth sta portando avanti già da diversi romanzi, basti pensare a titoli come “Il teatro di Sabbath”, e “L’animale morente”.
Oggi 73enne, Roth racconta in “Everyman” - titolo che in inglese significa qualcosa come “ogni uomo” ed è riferito al nome della gioielleria del padre del protagonista - della solitudine di un uomo di fronte alle malattie, al decadimento fisico e ai fallimenti nella vita privata. Come molti altri grandi scrittori, anche Roth torna in fondo alle tematiche classiche del suo lavoro, nel quale anche in questo caso, non mancano né un’amara ironia né l’irriverenza vitalistica di chi vuole continuare ad affermare la propria esistenza, al di là dell’età biologica. La presenza della morte è comunque tangibile pagina dopo pagina, ma non c’è morbosità o autocompiacimento. “In pochi minuti – scrive Roth in conclusione della magistrale scena del funerale – tutti erano andati via, avevano voltato le spalle, stanchi e lacrimosi, all’attività meno gradita della specie, e lui rimase indietro”. Lui, sia detto per inciso, è il defunto.
La storia del protagonista di “Everyman”, che non ha nome, è quella di un pubblicitario di successo e grande fascino che ripercorre la propria vita e le proprie malattie, i propri amori e le delusioni che ne sono seguite. Come in altri magistrali libri di Roth, anche in questo sullo sfondo aleggia il rimpianto per la perfezione dei giorni dell’infanzia sulle spiagge del New England, ma la riflessione dell’anziano sugli anni passati è inesorabilmente velata di amarezza. E il sentimento più straziante che coglie il protagonista è il rimpianto per i propri errori, che la prospettiva della morte rende, come ogni altra cosa, irreversibili. “Quest’uomo in genere pacato - scrive Roth in un passaggio intenso – ora si batteva furiosamente il pugno sul cuore come un fanatico immerso nella preghiera e, assalito dai rimorsi non soltanto per qualche errore ma per tutti i suoi errori, tutti gli stupidi, inesorabili, inestirpabili errori che aveva commesso”.
“Io non so neanche cosa sia l’ispirazione”, ha detto lo scrittore in un’intervista ad Antonio Monda, e quindi, rifacendosi alla citazione iniziale, non resta che attribuire al grande lavoro di Philip Roth l’impressionante serie di romanzi di primissimo da lui piano pubblicati negli ultimi anni. Forse “Everyman” non raggiunge le vette de “Il teatro di Sabbath” o “Pastorale americana” o “Il complotto contro l’America”, ma resta l’ennesima prova di un talento letterario che ha raggiunto i suoi vertici nel pieno della maturità. E che può permettere a Roth di scrivere candidamente una frase come questa: “Io credevo, dentro di me ne ero certo, che la vita durasse in eterno”. In pratica la sintesi perfetta del principale dilemma umano.
Iscriviti a:
Post (Atom)