“I dilettanti sono alla ricerca dell’ispirazione; gli altri si alzano e vanno a lavorare”. E’ una frase di “Everyman”, il ventisettesimo libro di Philip Roth che esce in questi giorni in Italia, che rispecchia bene il senso di una carriera letteraria, quella di Roth stesso, che con il passare degli anni diventa sempre più ricca e a cui, a detta di molti, manca solo il premio Nobel. Ogni anno Kilgore aspetta tifando che da Stoccolma arrivi il nome dell’ottimo Philip, ma ahinoi, finora le attese sono andate deluse, nonostante la serie infinita di miracoli letterari che lo scrittore ha mandato in libreria dal 1995. Aspetteremo...
“Everyman” è un romanzo che si apre con il funerale del protagonista ed è impregnato del senso tragico del confronto con la vecchiaia e la morte, simboleggiato anche dalla copertina, completamente nera, nonostante da sempre sia il bianco il colore che contraddistingue i libri Einaudi. Salutato dalla critica statunitense come un capolavoro, “Everyman” è un altro tassello di una riflessione sulla mortalità – e di conseguenza anche sul senso della vita – che Philip Roth sta portando avanti già da diversi romanzi, basti pensare a titoli come “Il teatro di Sabbath”, e “L’animale morente”.
Oggi 73enne, Roth racconta in “Everyman” - titolo che in inglese significa qualcosa come “ogni uomo” ed è riferito al nome della gioielleria del padre del protagonista - della solitudine di un uomo di fronte alle malattie, al decadimento fisico e ai fallimenti nella vita privata. Come molti altri grandi scrittori, anche Roth torna in fondo alle tematiche classiche del suo lavoro, nel quale anche in questo caso, non mancano né un’amara ironia né l’irriverenza vitalistica di chi vuole continuare ad affermare la propria esistenza, al di là dell’età biologica. La presenza della morte è comunque tangibile pagina dopo pagina, ma non c’è morbosità o autocompiacimento. “In pochi minuti – scrive Roth in conclusione della magistrale scena del funerale – tutti erano andati via, avevano voltato le spalle, stanchi e lacrimosi, all’attività meno gradita della specie, e lui rimase indietro”. Lui, sia detto per inciso, è il defunto.
La storia del protagonista di “Everyman”, che non ha nome, è quella di un pubblicitario di successo e grande fascino che ripercorre la propria vita e le proprie malattie, i propri amori e le delusioni che ne sono seguite. Come in altri magistrali libri di Roth, anche in questo sullo sfondo aleggia il rimpianto per la perfezione dei giorni dell’infanzia sulle spiagge del New England, ma la riflessione dell’anziano sugli anni passati è inesorabilmente velata di amarezza. E il sentimento più straziante che coglie il protagonista è il rimpianto per i propri errori, che la prospettiva della morte rende, come ogni altra cosa, irreversibili. “Quest’uomo in genere pacato - scrive Roth in un passaggio intenso – ora si batteva furiosamente il pugno sul cuore come un fanatico immerso nella preghiera e, assalito dai rimorsi non soltanto per qualche errore ma per tutti i suoi errori, tutti gli stupidi, inesorabili, inestirpabili errori che aveva commesso”.
“Io non so neanche cosa sia l’ispirazione”, ha detto lo scrittore in un’intervista ad Antonio Monda, e quindi, rifacendosi alla citazione iniziale, non resta che attribuire al grande lavoro di Philip Roth l’impressionante serie di romanzi di primissimo da lui piano pubblicati negli ultimi anni. Forse “Everyman” non raggiunge le vette de “Il teatro di Sabbath” o “Pastorale americana” o “Il complotto contro l’America”, ma resta l’ennesima prova di un talento letterario che ha raggiunto i suoi vertici nel pieno della maturità. E che può permettere a Roth di scrivere candidamente una frase come questa: “Io credevo, dentro di me ne ero certo, che la vita durasse in eterno”. In pratica la sintesi perfetta del principale dilemma umano.
2 commenti:
è il primo libro che leggo di Roth e la sua prosa non mi è dispiaciuta affatto...
Se posso permettermi, ti suggerirei di leggere "Pastorale americana" o "Il teatro di Sabbath" o "La macchia umana". O meglio ancora, tutti :-)
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