Quando andavo al liceo avrei dato un dito per assitere dal vivo a un concerto dei Pet Shop Boys. Con, grosso modo, 20 anni di ritardo ieri sera ce l’ho fatta. Tra le centinaia di tipi un po’ strani in piedi sulle sedie di Villa Arconati per l’unico show della band londinese in Italia, c’ero anche io. In sala mi aspettavo di trovare più “mod”, con i loro occhiali di celluloide e le camice strette. Qualcuno a dire la verità c’era, insieme pure a giovani che non avrebbero certo sfigurato nella Factory di Andy Warhol. Ma il resto del pubblico era perlopiù gente “normale”, con qualche – sebbene non frequente - scivolata pure nel modello banalotto del muscoloso-con-barbetta-rasata-sottilissima. Gasp.
Ma una volta spente le luci – su una struttura, bisogna dirlo, per quanto bellissima come scenografia e tutto il resto non adatta a un concerto di questo tipo: da due terzi dei settori era impossibile vedere e bisognava arrangiarsi in altre maniere... – eccoli qui, nella loro luccicante sonorità, i mitici ragazzi del negozio di piccoli animali. Ve lo confesso: quando è partita “Left to my own devices”, primo brano in scaletta, mi sono emozionato. Neil Tennant, classe 1954, vuol dire oggi 53enne, e Chris Lowe, di cinque anni più giovane, si sono presentati sul palco rispettivamente con marsina e cilindro il primo e incredibile felpa giallo fosforescente con cappuccio il secondo. Quest’ultimo capo era pure in vendita nello shop ufficiale: mi ha trattenuto dal comprarlo solo il fatto che costasse 60 euri. Che fosse pressoché impossibile da indossare in qualunque altra situazione della vita non mi è neppure passato per l’anticamera del cervello.
Uno schermo mobile e molto optical fa da sfondo allo show dei due Psb, che ormai ammiccano con grande stile all’arte contemporanea, quasi da sembrare due novelli Gilbert&George. E le suggestioni di Rothko e di Beckett si fondono bene con i brani più famosi della band, da “Always on my mind” a “Domino dancing”, passando per la straordinaria “Rent” e per le mitiche “Suburbia” e “West end girl”. Grandissimi. Anche nel contaminarsi con un gruppo di musicisti afro, che oltre a una presenza scenica di forza latinoamericana, regalano al pubblico anche una versione inedita e low-tech di “So Hard”. L’apoteosi però è finale, con la doppietta che vale il biglietto: “It’s a sin” e, di seguito, anzi in crescendo, “Go West”. Folla impazzita, Tennant – grigio di capelli ma con la stessa voce di 20 anni fa – che gigioneggia col suo cappotto a coda e Lowe sempre superbamente impassibile. Io c'ero.
Per quanto forse passati di moda, i Pet Shop Boys restano una pietra miliare per un certo tipo di musica, che riesce ancora a creare sonorità dance, senza però rinunciare all'armonia. E contaminando le discipline artistiche ci mandano a casa con la gradevole sensazione, dopo tanto ballare e cantare, di aver preso parte a un’esperienza che è, a tutti gli effetti, cultura.
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