Enormi palle di ghiaccio precipitano
Dal cielo
E suicidandosi come venti divini
Sull’asfalto
Il loro grido d’addio e di vendetta
Suona mostruoso e nuovo
Ho pensato fosse la guerra
Tra il pianeta e noi, guerra di rappresaglia
Inevitabile second strike
Ma in pochi istanti tutto è svanito
Nel silenzio
Grigio e rossastro del fine inverno
Rientrando in casa, sulle scale
Ho trovato mia moglie che piangeva
Lacrime copiose e lontane
Pensava a un’altra grandinata
A sangue, distruzione, forse fallimenti
Non so dire se il mio abbraccio l’abbia aiutata
Martedì
Tre mesi fa moriva Wally
Oggi una nuvola ha preso la sua forma
Correva nel cielo sgombro
Con quel suo indecifrabile mezzo sorriso
21 marzo 2008
06 marzo 2008
DeLillo e la parola che (non) salva
Un nuovo romanzo di Don DeLillo di per sé è già una notizia, se poi l’argomento è il più grande evento della storia recente – gli attacchi dell’11 settembre 2001 – ecco che siamo di fronte a un evento letterario di prima grandezza. "L’uomo che cade", edito in Italia da Einaudi, è un romanzo potente, scritto magnificamente, senza morbosità e retorica. Un libro che, come accaduto con "Molto forte, incredibilmente vicino" di Jonathan Safran Foer (molto amato da Kilgore), segna una pietra miliare nella percezione letteraria dell’attacco al World Trade Center e su come è cambiata la vita (e forse il mondo, almeno per quanto riguarda l’interiorità delle persone) dopo quel giorno.
"L’uomo che cade" – titolo ispirato a un artista performer che si esibisce saltando dai palazzi vestito come un impiegato e ricorda il tragico gesto di chi si è ritrovato mortalmente intrappolato nelle due torri – è una storia circolare, che inizia e finisce nello stesso momento, quando il protagonista Keith esce da una delle due torri e, ferito ma vivo, torna dalla sua ex moglie Lianne. "Stava accadendo ovunque intorno a lui, un’automobile mezzo sepolta dai detriti, finestrini sfondati e rumori che fuoriuscivano, voci radiofoniche che sfioravano i calcinacci". La lingua di DeLillo ricrea la realtà e la rimodella, inventando quella distanza, quasi una sorta di ebbrezza del lettore, che è ormai diventata un marchio di fabbrica dello scrittore del Bronx, sempre più monumento vivente della letteratura americana. Così come una sua firma sembrano essere diventate le frasi interrotte e le domande senza punti interrogativi: elementi che contribuiscono a fare anche di questo romanzo un oggetto di dimensioni difficili da delimitare.
La storia erompe sulla scena della vita di persone più o meno comuni, ed è con i loro occhi che il romanzo procede, seguendo le loro ansie (i bambini che scrutano il cielo attendendo altri aeroplani, il nome di Bin Laden storpiato in Bill Lawton, la necessità di ritrovare qualcuno che abbia condiviso i momenti impossibili dentro le torri, la mania di contare le cose) e la loro difficoltosa strada per il ritorno alla normalità. Che alla fine Lianne trova quando si rende conto che "Dio è la voce che dice: Io non ci sono", ma che la struttura stessa del romanzo - che in chiusura ci riporta all’impatto degli aerei e al caos nell’ufficio di Keith - sembra dirci che non è davvero possibile raggiungere.
Accanto alla vicenda dei due ex sposi che (forse) si ritrovano "dopo gli aeroplani", DeLillo racconta anche di un dirottatore, questa volta partendo da lontano e arrivando solo alla fine all’11 settembre. Lo scrittore padroneggia di nuovo la materia del terrorismo (come nei precedenti romanzi "I nomi", "Giocatori" e "Mao II") con la profondità consueta, ma la forza de "L’uomo che cade" risiede forse più nello sguardo minimo che in quello globale. E quando Keith e la sopravvissuta Florence ricordano insieme lo stesso uomo che, mentre loro scendevano, saliva nella torre con un palanchino, DeLillo mette sulla pagina un paragrafo memorabile: "Qualunque cosa fosse successa a quell’uomo, si collocava al di fuori del fatto che entrambi l’avessero visto, in punti diversi della discesa, eppure in un certo senso era importante, in maniera indefinibile, che l’uomo fosse stato conservato in quei ricordi incrociati, portato giù, fuori dalla torre e in quella stanza". Per il Nobel della Letteratura precedenza anagrafica a Philip Roth, ma Don DeLillo c’è.
"L’uomo che cade" – titolo ispirato a un artista performer che si esibisce saltando dai palazzi vestito come un impiegato e ricorda il tragico gesto di chi si è ritrovato mortalmente intrappolato nelle due torri – è una storia circolare, che inizia e finisce nello stesso momento, quando il protagonista Keith esce da una delle due torri e, ferito ma vivo, torna dalla sua ex moglie Lianne. "Stava accadendo ovunque intorno a lui, un’automobile mezzo sepolta dai detriti, finestrini sfondati e rumori che fuoriuscivano, voci radiofoniche che sfioravano i calcinacci". La lingua di DeLillo ricrea la realtà e la rimodella, inventando quella distanza, quasi una sorta di ebbrezza del lettore, che è ormai diventata un marchio di fabbrica dello scrittore del Bronx, sempre più monumento vivente della letteratura americana. Così come una sua firma sembrano essere diventate le frasi interrotte e le domande senza punti interrogativi: elementi che contribuiscono a fare anche di questo romanzo un oggetto di dimensioni difficili da delimitare.
La storia erompe sulla scena della vita di persone più o meno comuni, ed è con i loro occhi che il romanzo procede, seguendo le loro ansie (i bambini che scrutano il cielo attendendo altri aeroplani, il nome di Bin Laden storpiato in Bill Lawton, la necessità di ritrovare qualcuno che abbia condiviso i momenti impossibili dentro le torri, la mania di contare le cose) e la loro difficoltosa strada per il ritorno alla normalità. Che alla fine Lianne trova quando si rende conto che "Dio è la voce che dice: Io non ci sono", ma che la struttura stessa del romanzo - che in chiusura ci riporta all’impatto degli aerei e al caos nell’ufficio di Keith - sembra dirci che non è davvero possibile raggiungere.
Accanto alla vicenda dei due ex sposi che (forse) si ritrovano "dopo gli aeroplani", DeLillo racconta anche di un dirottatore, questa volta partendo da lontano e arrivando solo alla fine all’11 settembre. Lo scrittore padroneggia di nuovo la materia del terrorismo (come nei precedenti romanzi "I nomi", "Giocatori" e "Mao II") con la profondità consueta, ma la forza de "L’uomo che cade" risiede forse più nello sguardo minimo che in quello globale. E quando Keith e la sopravvissuta Florence ricordano insieme lo stesso uomo che, mentre loro scendevano, saliva nella torre con un palanchino, DeLillo mette sulla pagina un paragrafo memorabile: "Qualunque cosa fosse successa a quell’uomo, si collocava al di fuori del fatto che entrambi l’avessero visto, in punti diversi della discesa, eppure in un certo senso era importante, in maniera indefinibile, che l’uomo fosse stato conservato in quei ricordi incrociati, portato giù, fuori dalla torre e in quella stanza". Per il Nobel della Letteratura precedenza anagrafica a Philip Roth, ma Don DeLillo c’è.
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