La letteratura come speranza, la lingua ebraica come salvezza. Aharon Appelfeld, "decano" degli scrittori israeliani presenti alla Fiera del libro di Torino, ha raccontato così la propria storia e il proprio rapporto con la scrittura. La vocazione alla scrittura - ha detto a Kilgore - "è una specie di mistero. Sono arrivato in Israele nel 1946, dopo aver vissuto nel ghetto, nei campi di concentramento e nei boschi. Avevo 14 anni e avevo perso tutti i miei parenti". La scintilla per la scrittura è scattata una notte: "Presi un cartoncino e scrissi i nomi della mia famiglia. Ho fatto una lista e improvvisamente, mentre mettevo i loro nomi sulla carta, loro erano vivi e io potevo parlare con loro. E' stato il mio primo contatto con la scrittura". Un contatto che la lingua ebraica e la lettura della Bibbia hanno reso poi definitivo.
Reduce dai campi di concentramento, dai quali è fuggito bambino, oggi Appelfeld è un uomo di 76 anni che parla con voce lenta e gentile e racconta del suo modo trasognato di guardare alla vita, pur nelle circostanze più tragiche. "Ero un bambino - ha raccontato - durante quello che viene chiamato Olocausto. Ero solo, affamato e sentivo la solitudine mentre cercavo qualcuno che mi desse un po' di pane. Ma ero un bambino: giocavo con i rami, con i sassi e inseguivo gli uccelli nei boschi. Probabilmente ho assorbito questo mistero e l'ho portato in me. La meraviglia - ha proseguito il romanziere - era voglia di capire e di scrivere ancora e ancora. Per questo ho scritto delle lettere a mia madre, ogni notte. Sapevo che era morta, ma avevo dei sentimenti da trasmetterle. Sto ancora aspettando le risposte".
Lo sguardo di Appelfeld resta sempre improntato all'ottimismo: "Scrivere significa essere innamorati - ha spiegato con dolcezza - se non sei innamorato non puoi scrivere". E a proposito di ciò su cui non ha mai scritto, ossia il periodo nei campi di concentramento, è probabile che non ne scriverà mai. "Come scrittore - ha confidato - non mi interessa il momento in cui gli esseri umani perdono la propria faccia. Nel ghetto gli uomini erano ancora umani, ma nei campi di concentramento la capacità di essere un essere umano la perdi e diventi un animale. Non mi interessa scrivere degli esseri umani in questo stato". E nei suoi libri, pur nei giorni più cupi dell'umanità, riecheggia sempre la speranza. Una speranza sul futuro dell'umanità che viene riaccesa anche solo avvicinandosi a questo piccolo, straordinario testimone, che ci offre un altro modo di guardare alla storia e alla vita.
2 commenti:
segnalaci qualche suo romanzo da leggere!
Guanda ha pubblicato di recente "Badenheim 1939" e "Storia di una vita". Una specie di realismo magico mitteleuropeo nel cuore di tenebra del secolo...
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