Sì, io sono un massimalista. Rick Moody, scrittore newyorchese classe 1961, ha un bel sorriso e occhi rassicuranti, ma le sue pagine grondano di storie complesse, spesso vissute su un confine sottile e pericoloso, e sono sorrette da una lingua potente e multiforme, distante anni luce dagli standard del minimalismo. In Italia per presentare il suo nuovo libro – “Tre vite”, edito dalla stessa Minimum Fax che pubblica Raymond Carver -, Moody ammette di non aver mai voluto seguire l’esempio del grande minimalista: “Non ho mai voluto essere uno scrittore di questo tipo – ha spiegato a Kilgore in un piacevole incontro milanese -. Fin dal liceo non sono mai stato un bravo minimalista, non riesco a essere riassuntivo e semplificatorio”. E basta cominciare a leggere “Tre vite” per rendersene conto. La novella che apre il libro, “L’Armata Omega”, è infatti un lucido percorso dentro la follia di un anziano miliardario paranoico che, mentre si batte contro le malattie senili e i propri problemi personali, viene a conoscenza di uno spaventoso complotto e subito si impegna in prima persona per garantire la sicurezza nazionale contro dei misteriosi nemici “dalla carnagione scura”. La chiave per entrare in questo universo oscuro il dottor Van Deusen la trova in un romanzo di fantapolitica e il suo contatto con le forze di sicurezza è un altro anziano che finge di fare il pescatore, ma in realtà è un agente segreto. E questa è solo una lacunosa sintesi del racconto.
Niente di più distante dalle trame scarne di Carver dunque, e il pensiero che subito corre ai maestri del postmoderno, come per esempio l’inafferrabile Thomas Pynchon. “Accanto alla tradizione minimalista – ci ha detto Moody – c’è un’altra corrente letteraria fortemente influenzata dall’Europa e dalla letteratura sperimentale che comprende Pynchon, ma anche Don DeLillo, William Gaddis. Io mi sento più vicino a questi scrittori e mi sono formato con Angela Carter e John Hawkes, mi sento più affine al loro stile. Se questo è massimalismo allora io sì, sono un massimalista”. Per quanto le definizioni siano sempre un po’ limitative, è comunque indubbio che Rick Moody punti in alto, tanto per gli argomenti delle sue storie quanto per il modo in cui le racconta. Ma quando, sempre in “L’Armata Omega”, il protagonista capisce quale deve essere la sua missione, ecco che la storia vira dal semi grottesco in qualcosa di diverso, difficile da circoscrivere. Ed è la prosa di Moody che segna lo scarto con periodi come questo: “Mentre avanzavo, ho sentito il sibilo di un paio di palle da golf che mi sfrecciavano vicino, come piccoli asteroidi nel grande ignoto di questo presente apocalittico, ma non vi ho prestato la minima attenzione”. Oppure, e qui il legame con le tematiche più care a Pynchon e DeLillo è manifesto, poco più avanti leggiamo: “Forse la Fraulein piangeva perché sapeva che questa vita non manteneva niente di quello che prometteva, vale a dire che ogni interazione umana era mediata dai tristi fatti che ci circondavano”. Il contesto non è poi così importante, perché queste frasi brillano di luce propria.
Lo stile sta al centro del lavoro di Rick Moody, e quando gli chiediamo per lui quanto è importante il “come” si scrive, la risposta comincia con un “non ci si pone abbastanza questa domanda” che suona come una velata accusa a chi si focalizza troppo su trame e intrecci. “La mia idea – ci ha spiegato lo scrittore – è che ognuno abbia un suo stile raffinato, anche Carver ed Hemingway che puntavano, volutamente, al massimo della sobrietà. Il mio metodo è fatto di frasi lunghe, complesse, ricche di aggettivi e avverbi”. Una scelta di articolazione del linguaggio che si colloca anche nella dimensione musicale: “Io do grande importanza – ha aggiunto lo scrittore – al valore sonoro della lingua, che si affianca al semplice significato delle parole”. Suoni, ritmi, caleidoscopi di immagini che si sovrappongono anche nel lungo racconto che chiude il libro di Moody e che Dave Eggers ha selezionato per la propria antologia di storie d’avventura già apparsa in Italia qualche anno fa: “Albertine”. Una novella complessa e visionaria sulla memoria e sulla realtà che cita Proust nel titolo ma poi in qualche modo reinventa il genere fantascientifico in chiave allucinatoria, nel solco della migliore tradizione di Phil Dick. “La distinzione tra i generi della letteratura – ci ha detto Moody a proposito di chi considera minori certe tipologie di scritti e scrittori – è arbitraria e non sta scritta da nessuna parte. Io credo che la fantascienza abbia la stessa dignità della letteratura ‘tradizionale’ e ci sono grandi scrittori di fantascienza che io considero grandi scrittori pienamente letterari. C’è un continuum tra letteratura ‘alta’ e ‘bassa’ e romanzieri come Dick, William Gibson o J. G. Ballard non possono essere incasellati in definizioni di genere. Dick, per esempio, può essere criticato per qualche frase non perfetta, ma le sue idee sono fortissime”.
“Albertine”, nella tradizione della migliore science-fiction, è in ogni caso una novella che parla anche del nostro presente, in particolare di quello americano legato all’11 settembre. In una New York da “day after” spopola una droga, che ha lo stesso nome dell’amata di Proust, che fa ricordare il passato, quella vita che le esplosioni hanno spazzato via insieme alla città. Tutto è, ovviamente, ben più complesso e tra salti spazio temporali, anticipazioni di futuro, cartelli del narcotraffico, resistenti di Brooklyn e momenti in cui il protagonista riesce “a recitare a memoria tutte le poesie che avevo imparato nella vita”, si entra in un vortice di percezioni che scavalca ogni definizione di genere e sembra puntare decisa verso il cuore della letteratura, quel luogo nucleare dove lo scrittore manovra il proprio potere di demiurgo creatore. Un’interpretazione che forse scavalca le intenzioni di Rick Moody, che, pur apprezzandola, ci riporta su un piano di realtà: “L’elemento del ricordo – ha spiegato lo scrittore – deriva dalla sensazione che dopo l’11 settembre nell’opinione pubblica statunitense si tentasse di dimenticare molto del passato politico, ossia tutte le responsabilità americane che avevano contribuito a creare le condizioni per l’attacco terroristico. E al tempo stesso la gente voleva ricordare ciò che c’era prima degli attentati al World Trade Center. Si cercava di dimenticare intensamente alcune cose e di ricordarne intensamente altre, e la memoria era come un tesoro, ma molte parti venivano rimosse. In ‘Albertine’ ho cercato di rendere questa sensazione e questo paradosso”.
La paura, come ha sottolineato l’editor del libro Martina Testa, è uno dei fili rossi delle tre narrazioni e, a ben guardare, si ha la sensazione chi racconti fotografino un Paese alla deriva, perso nei meandri dei propri timori. “Un anno fa – ci ha detto Rick Moody – la situazione era esattamente questa, per come la vedevo io. Ma oggi sono molto più speranzoso per gli sviluppi che stiamo vedendo”. Sviluppi che hanno un nome e un cognome: Barack Obama. “Sarà un’elezione combattuta – ha spiegato con grande partecipazione Moody – ma Obama ha la possibilità di farcela e io lo sostengo. Ha ottime chance di vittoria, sarebbe meraviglioso se ce la facesse”. Obama piace anche ad altri scrittori, come Jonathan Safran Foer, che recentemente ha raccontato la propria passione politica per il senatore nero anche alla stampa italiana. Rick Moody si unisce all’appello di Safran e si dichiara convinto che non solo elite e intellettuali guardino con simpatia al candidato democratico. “La gente è con lui – ci ha detto – ha vere basi di appoggio popolare anche se una certa fascia di bianchi razzisti dei ceti più bassi potrebbe fare resistenza, soprattutto nel MidWest. Sono proprio quelli che sostenevano Hillary Clinton, ma se ora si farà il ticket anche questo problema potrà essere risolto”.
Moody si entusiasma quando parla di Obama, ma come scrittore crede più nello sguardo sociologico che in quello, potremmo dire, politologico. “Più che alla politica sono interessato a descrivere come le persone reagiscono alla paura, per esempio. Non cerco di raccontare l’atmosfera politica vera e propria, anche se la metafora riguarda effettivamente le condizioni del mio Paese”. Politica e letteratura, anche nel caso di uno scrittore appassionato come Moody, restano comunque oggetti diversi e distanti e lo si percepisce anche da come lo scrittore, pur raccontando di paranoie, violenze tra colleghi o di un presente alternativo e apocalittico, si prende cura dei suoi personaggi. Lo sguardo non è mai sprezzante e, anzi, sembra diventare più affettuoso a mano a mano che le loro situazioni si fanno più complesse e le loro condizioni peggiori. “Il momento della politica – ha voluto spiegare Moody – è uno strumento per evocare la psicologia dei personaggi, la loro interiorità e per questo sono meritevoli di attenzioni affettuose e non di disprezzo, anche se rappresentano idee politiche che io non condivido”. E poi, come Salinger ci ha magistralmente ricordato alla fine de “Il giovane Holden”, lo scrittore non riesce a non affezionarsi ai personaggi nati dal suo racconto: “Se lasci che un personaggio racconti la sua storia a lungo – ha ammesso Moody – diventa impossibile non provare compassione, e questo è proprio il ruolo dello scrittore”. Anche di uno che si dichiara fieramente massimalista.
17 giugno 2008
10 giugno 2008
Tom McCarthy, un romanzo da ricordare
Un "romanzo dei ricordi perduti" che piomba sulla scena letteraria con la forza di una ventata d'aria fresca, che spariglia le carte e porta nuova linfa al romanzo contemporaneo. "Déjà vu" del 39enne artista inglese Tom McCarthy, edito in Italia per i tipi di Isbn, è la storia di un'ossessione, ma anche una sorta di manuale per guardare alla realtà, da un punto di vista che si richiama a Don Chisciotte e ad Amleto, ma anche a Francis Ponge e al leggendario Thomas Pynchon. Tutto ruota intorno a un protagonista, "un antieroe" nella definizione dello stesso McCarthy, che, colpito da un misterioso oggetto caduto dal cielo, perde la memoria. Incassato un enorme risarcimento, l'uomo senza nome comincia a esperire dei déjà vu e, usando i milioni di sterline di cui ora dispone, mette in scena delle ricostruzioni complesse dei suoi pochi ricordi, nelle quali intervengono figuranti e tutto viene ricreato nei minimi dettagli. La ricerca della naturalezza, della "fluidità" dei gesti, porterà il protagonista e il suo assistente, l'indiano Naz di professione "facilitatore", a spingersi sempre più avanti, in un'escalation di tensione e drammaticità che culminerà a bordo di un aereo dirottato.
"Ho finito di scrivere il romanzo - ha detto McCarthy a Kilgore in un incontro a Milano - nel luglio 2001 e quando ho visto cosa è successo l'11 settembre ho quasi pensato: mi hanno fregato il finale". Nonostante risalga a quasi sette anni fa, "Déjà vu" ha faticato a trovare un editore e, dopo una prima edizione a tiratura limitata del 2004, è uscito negli Stati Uniti nel 2006 e, la notizia è del 1 giugno, si è anche aggiudicato il Believer Book Award 2007. "Sono molto felice per questo premio - ci ha detto lo scrittore -, il mio libro non è destinato a vincere premi come il Pulitzer, è marginale rispetto al mainstream". In realtà però i temi toccati da McCarthy sono profondi e cruciali per il nostro tempo e fanno pensare anche al lavoro di Don DeLillo, romanziere che ha indagato sui flussi di informazione che attraversano la nostra vita. "Sono stato sicuramente influenzato anche da DeLillo - ha spiegato McCarthy - ma lui è più concettuale, io volevo che il mio libro fosse più materiale, non solo idee, ma anche cose concrete. Un'influenza più profonda - ha aggiunto lo scrittore britannico - mi viene da Francis Ponge per l'osservazione degli oggetti, per come li descrive. Ma anche dal cinema di Tarkovskij, che per sei minuti riprende un muro".
La storia narrata in "Déjù vu" è anche la cronaca del fallimento del tentativo di creare copie perfette della vita. "Il mondo – ci ha spiegato McCarthy - è sempre un passo avanti. Questo è un romanzo anti idealista, anti hegeliano. In termini filosofici c'è un grande combattimento tra Bataille ed Hegel e chi vince è Bataille. Ossia l'imprevedibilità delle situazioni, i conti che non tornano, quel qualcosa in più che disorienta e crea la sensazione inebriante che coglie l'antieroe nel finale del libro.
Il romanzo di McCarthy si focalizza dunque sul'arte di vedere, che si viene a configurare quasi come una performance della vita quotidiana. "Questa - ha detto lo scrittore - è l'essenza della
poesia e anche dell'arte visuale". Una pratica, quella di offrire una visione più profonda della realtà, che fa dell'arte una sorta di "negativo fotografico" della realtà, che si può duplicare - re-interpretare per usare il linguaggio di "Déjà vu" – migliaia di volte. "L'arte sopravvive alla realtà - ha detto McCarthy -, l'arte è ciò che rimane, il residuo". E il suo romanzo è un residuo di dimensioni fuori dal comune, destinato a lasciare traccia. Quando gli chiediamo se l'arte può salvare la nostra vita, la risposta è però inequivocabile: "No, grazie a Dio, no, no, no".
Di una cosa però Kilgore è convinto: "Déjà vu" è un romanzo importante, la cui grandezza forse riusciremo a capire appieno solo tra qualche anno, quando lo ricorderemo come un classico della nostra epoca confusa.
"Ho finito di scrivere il romanzo - ha detto McCarthy a Kilgore in un incontro a Milano - nel luglio 2001 e quando ho visto cosa è successo l'11 settembre ho quasi pensato: mi hanno fregato il finale". Nonostante risalga a quasi sette anni fa, "Déjà vu" ha faticato a trovare un editore e, dopo una prima edizione a tiratura limitata del 2004, è uscito negli Stati Uniti nel 2006 e, la notizia è del 1 giugno, si è anche aggiudicato il Believer Book Award 2007. "Sono molto felice per questo premio - ci ha detto lo scrittore -, il mio libro non è destinato a vincere premi come il Pulitzer, è marginale rispetto al mainstream". In realtà però i temi toccati da McCarthy sono profondi e cruciali per il nostro tempo e fanno pensare anche al lavoro di Don DeLillo, romanziere che ha indagato sui flussi di informazione che attraversano la nostra vita. "Sono stato sicuramente influenzato anche da DeLillo - ha spiegato McCarthy - ma lui è più concettuale, io volevo che il mio libro fosse più materiale, non solo idee, ma anche cose concrete. Un'influenza più profonda - ha aggiunto lo scrittore britannico - mi viene da Francis Ponge per l'osservazione degli oggetti, per come li descrive. Ma anche dal cinema di Tarkovskij, che per sei minuti riprende un muro".
La storia narrata in "Déjù vu" è anche la cronaca del fallimento del tentativo di creare copie perfette della vita. "Il mondo – ci ha spiegato McCarthy - è sempre un passo avanti. Questo è un romanzo anti idealista, anti hegeliano. In termini filosofici c'è un grande combattimento tra Bataille ed Hegel e chi vince è Bataille. Ossia l'imprevedibilità delle situazioni, i conti che non tornano, quel qualcosa in più che disorienta e crea la sensazione inebriante che coglie l'antieroe nel finale del libro.
Il romanzo di McCarthy si focalizza dunque sul'arte di vedere, che si viene a configurare quasi come una performance della vita quotidiana. "Questa - ha detto lo scrittore - è l'essenza della
poesia e anche dell'arte visuale". Una pratica, quella di offrire una visione più profonda della realtà, che fa dell'arte una sorta di "negativo fotografico" della realtà, che si può duplicare - re-interpretare per usare il linguaggio di "Déjà vu" – migliaia di volte. "L'arte sopravvive alla realtà - ha detto McCarthy -, l'arte è ciò che rimane, il residuo". E il suo romanzo è un residuo di dimensioni fuori dal comune, destinato a lasciare traccia. Quando gli chiediamo se l'arte può salvare la nostra vita, la risposta è però inequivocabile: "No, grazie a Dio, no, no, no".
Di una cosa però Kilgore è convinto: "Déjà vu" è un romanzo importante, la cui grandezza forse riusciremo a capire appieno solo tra qualche anno, quando lo ricorderemo come un classico della nostra epoca confusa.
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