Un "romanzo dei ricordi perduti" che piomba sulla scena letteraria con la forza di una ventata d'aria fresca, che spariglia le carte e porta nuova linfa al romanzo contemporaneo. "Déjà vu" del 39enne artista inglese Tom McCarthy, edito in Italia per i tipi di Isbn, è la storia di un'ossessione, ma anche una sorta di manuale per guardare alla realtà, da un punto di vista che si richiama a Don Chisciotte e ad Amleto, ma anche a Francis Ponge e al leggendario Thomas Pynchon. Tutto ruota intorno a un protagonista, "un antieroe" nella definizione dello stesso McCarthy, che, colpito da un misterioso oggetto caduto dal cielo, perde la memoria. Incassato un enorme risarcimento, l'uomo senza nome comincia a esperire dei déjà vu e, usando i milioni di sterline di cui ora dispone, mette in scena delle ricostruzioni complesse dei suoi pochi ricordi, nelle quali intervengono figuranti e tutto viene ricreato nei minimi dettagli. La ricerca della naturalezza, della "fluidità" dei gesti, porterà il protagonista e il suo assistente, l'indiano Naz di professione "facilitatore", a spingersi sempre più avanti, in un'escalation di tensione e drammaticità che culminerà a bordo di un aereo dirottato.
"Ho finito di scrivere il romanzo - ha detto McCarthy a Kilgore in un incontro a Milano - nel luglio 2001 e quando ho visto cosa è successo l'11 settembre ho quasi pensato: mi hanno fregato il finale". Nonostante risalga a quasi sette anni fa, "Déjà vu" ha faticato a trovare un editore e, dopo una prima edizione a tiratura limitata del 2004, è uscito negli Stati Uniti nel 2006 e, la notizia è del 1 giugno, si è anche aggiudicato il Believer Book Award 2007. "Sono molto felice per questo premio - ci ha detto lo scrittore -, il mio libro non è destinato a vincere premi come il Pulitzer, è marginale rispetto al mainstream". In realtà però i temi toccati da McCarthy sono profondi e cruciali per il nostro tempo e fanno pensare anche al lavoro di Don DeLillo, romanziere che ha indagato sui flussi di informazione che attraversano la nostra vita. "Sono stato sicuramente influenzato anche da DeLillo - ha spiegato McCarthy - ma lui è più concettuale, io volevo che il mio libro fosse più materiale, non solo idee, ma anche cose concrete. Un'influenza più profonda - ha aggiunto lo scrittore britannico - mi viene da Francis Ponge per l'osservazione degli oggetti, per come li descrive. Ma anche dal cinema di Tarkovskij, che per sei minuti riprende un muro".
La storia narrata in "Déjù vu" è anche la cronaca del fallimento del tentativo di creare copie perfette della vita. "Il mondo – ci ha spiegato McCarthy - è sempre un passo avanti. Questo è un romanzo anti idealista, anti hegeliano. In termini filosofici c'è un grande combattimento tra Bataille ed Hegel e chi vince è Bataille. Ossia l'imprevedibilità delle situazioni, i conti che non tornano, quel qualcosa in più che disorienta e crea la sensazione inebriante che coglie l'antieroe nel finale del libro.
Il romanzo di McCarthy si focalizza dunque sul'arte di vedere, che si viene a configurare quasi come una performance della vita quotidiana. "Questa - ha detto lo scrittore - è l'essenza della
poesia e anche dell'arte visuale". Una pratica, quella di offrire una visione più profonda della realtà, che fa dell'arte una sorta di "negativo fotografico" della realtà, che si può duplicare - re-interpretare per usare il linguaggio di "Déjà vu" – migliaia di volte. "L'arte sopravvive alla realtà - ha detto McCarthy -, l'arte è ciò che rimane, il residuo". E il suo romanzo è un residuo di dimensioni fuori dal comune, destinato a lasciare traccia. Quando gli chiediamo se l'arte può salvare la nostra vita, la risposta è però inequivocabile: "No, grazie a Dio, no, no, no".
Di una cosa però Kilgore è convinto: "Déjà vu" è un romanzo importante, la cui grandezza forse riusciremo a capire appieno solo tra qualche anno, quando lo ricorderemo come un classico della nostra epoca confusa.
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