E se Franz Kafka fosse sopravvissuto alla malattia e all’Olocausto e avesse raggiunto l’America? Avremmo ancora il più grande scrittore del Novecento (o almeno uno dei più grandi, ma a contendergli lo scettro, a ben guardare, ci sono solo due irlandesi, Joyce e Beckett) oppure solo un professore attempato che ha tenuto nel cassetto, nascosti a tutti, romanzi intitolati Il Processo o Il Castello? Di questo ha scritto Philip Roth, uno dei maggiori autori viventi, in un breve testo del 1973 che esce per la prima volta in Italia per Einaudi: Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno – Ovvero, guardando Kafka. Un piccolo libro, articolato in due parti, che è una scintilla d’intelligenza e apre una finestra prima sull’ultima felicità di Kafka, quella più autentica e senza speranza, quindi sulla possibilità di una “seconda chance” per lo scrittore praghese, con un prezzo da pagare però.
Roth parte dalla citazione del digiunatore kafkiano, che muore di inedia perché non riusciva a trovare un cibo che gli piacesse, per rievocare la figura di Kafka, soprattutto nell’ultima parte della sua vita, quando, ormai certo di dover morire, vive una breve stagione d’amore accanto alla giovane Dora Dymant. Philip Roth ricorda che Kafka aveva scritto al padre di essere escluso dalla sfera del matrimonio in quanto questa era propriamente sua, del genitore. “Ma adesso – aggiunge lo scrittore di Newark – a quanto pare la prospettiva di una Dora per sempre, di una moglie, di una casa e dei figli per l’eternità, non è più la prospettiva terrificante, sbigottente, che sarebbe stata un tempo, perché adesso ‘per l’eternità’ senza dubbio non significa più che qualche mese”. L’intelligenza di Roth è affilata come un coltello, e poco oltre, quando si parla della relazione casta e quasi genitoriale tra Franz e Dora, ecco la geniale parafrasi del celeberrimo attacco della Metamorfosi: “Quando Franz Kafka una mattina nel suo letto si svegliò da sonni inquieti, si ritrovò trasformato in un padre, uno scrittore e un ebreo”.
La seconda parte del libro è più narrativa, è una storia ambientata a Newark nel 1942 e il protagonista è il 59enne insegnante della scuola di ebraico dove studia il narratore, un ragazzino ebreo di 9 anni. Manco a dirlo, si tratta del dottor Franz Kafka, con il suo alito cattivo “che alle cinque del pomeriggio è aromatizzato dai succhi intestinali”, tanto da valergli il nomignolo di “dottor Kishka”, ossia in yiddish “interiora”. Il sopravvissuto è timido, ha una storia, poi troncata bruscamente, con una zia zitella del ragazzo, quindi sparisce e muore a 70 anni, senza eredi e, soprattutto, senza libri. “Le carte del deceduto – scrive Roth – non vengono reclamate da nessuno, e scompaiono”. E quindi la gloria letteraria, seppur postuma e forse umanamente ancora più amara, che ha poi raggiunto il nome del Kafka storico, qui si dissolve nel nulla. “No – Conclude Roth – semplicemente non è dato che Kafka possa mai diventare ‘il’ Kafka, perdinci, sarebbe ancora più strano di un uomo che si trasforma in un insetto. Nessuno ci crederebbe, men che meno Kafka”. Ma forse la letteratura sì.
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