La guerra delle Falkland raccontata dalla prospettiva di un
gruppo di soldati argentini imboscati in una vera e propria “tana”. E’ inconsueto
il taglio scelto dallo scrittore di Buenos Aires Rodolfo Fogwill per il romanzo Scene da una battaglia sotterranea, opera postuma (Fogwill è morto nel 2010 a 69 anni) che segna il
debutto in italiano di un autore considerato tra i più importanti del suo
Paese. Il libro, uno dei tre titoli con cui ha esordito il marchio Sur (della
scuderia Minimun Fax), è notevolissimo e giustamente Vittorio Giacopini lo ha
paragonato sulla Domenica del Sole24Ore al Vonnegut di Mattatoio n. 5: molto
simile è infatti la postura di fronte all’impari confronto tra i corpi umani,
così fragili e difficilmente riparabili, e le armi dei conflitti contemporanei,
così assurdamente letali. Ma Fogwill, in questo più “contemporaneo” e
problematico, aggiunge nella prefazione al romanzo una fondamentale
precisazione: “Torno a ripetere che non ho scritto un libro sulla guerra, ma su
me stesso e sulla lingua di uno che non scriverà mai contro la guerra, contro
la pioggia, contro i terremoti né i temporali, ma scriverà sempre contro i modi
sbagliati di chiamare il nostro destino e di conviverci”. Insomma, questo romanzo
scritto “contro una maniera stupida di pensare la guerra e la letteratura”,
suppone che la guerra sia inevitabilmente iscritta nella storia dell’umanità, e
quindi i suoi straordinari personaggi agiscono di conseguenza, con lo stesso
distacco ideologico che si prova di fronte a un acquazzone imprevisto.
Gli armadilli (questo il titolo originale del romanzo, Los
pichiciegos, la traduzione è di Ilide Carmignani, ossia la voce italiana di
Roberto Bolaño) hanno scelto di sfuggire alla guerra nascondendosi sottoterra,
creando un sistema sociale alternativo, che ha le proprie gerarchie (i Re lo
governano in modo autocratico) e le proprie regole (si esce solo di notte, si
tratta con gli inglesi). Ma nel tono tra il tragico e il farsesco che Fogwill
modula con abilità e con una prospettiva di narrazione molto mobile si coglie
una verità fondamentale: l’incompatibilità di parole come “vita” e “guerra” e
l’assurdità della distinzione tra i due eserciti nemici: gli inglesi – pensa a
un certo punto un personaggio, “non erano peggio [degli argentini], erano
uguali”. Ecco, questo è probabilmente il punto chiave del romanzo che si fregia
di un livello di ribellione profondissimo, di un abbandono del concetto di
appartenenza così estremo da essere quasi inaccettabile. Se si cala questa
posizione di Fogwill nell’Argentina della dittatura militare (e la guerra per
le isole che qui chiamano Malvinas è un esempio storico della follia di quel
regime, anche in politica estera) si capisce quanto solitario e controverso
debba essere apparso lo scrittore.
Sotto la crosta delle ferite – reali o metaforiche che siano
– e della sporcizia, negli armadilli pulsa il senso più profondo e disperato dell’umanità.
In fondo quelle pecore che saltano in aria sui campi minati, che poi diventano
cibo per gli imboscati, sono esattamente uguali a noi. Semplicemente c’è una
impercettibile (e quindi a ben guardare trascurabile) differenza di
prospettiva. Ma nonostante tutto questo, si lotta per restare aggrappati alla
vita, anche sottoterra, anche nel gelo assurdo delle contese isole australi.
Tutto ciò, comunque, non deve mettere in secondo piano un altro aspetto
fondamentale del libro: la sua qualità letteraria e visionaria. Fogwill crea
una narrazione apparentemente polifonica, in realtà guidata dall’interno
(fingendo, borgesianamente, che avvenga dall’esterno), e regala al lettore
scene visionarie e indimenticabili, come il racconto allucinato della “Grande Attrazione”
nel cielo per una volta schiaritosi. Un libro importante, anomalo, grottesco,
disperato e umano: insomma di quelli da ricordare.