15 novembre 2012

Il senso di un (antipatico) Franzen per la letteratura

La sensazione, ovviamente guardando da lontano, è che Jonathan Franzen sia una persona complessa, forse quasi antipatica. Il dato, del resto opinabile e non verificato, è comunque irrilevante di fronte, come è giusto che sia, alle cose che scrive, al suo essere così profondamente scrittore, che rappresenta l'unico aspetto che dovrebbe contare per chi tenta di fare critica o informazione culturale. E dunque, pur con le perplessità che certe sue prese di posizione possono suscitare e con i (moderati) dubbi che hanno affiancato gli (innumerevoli) elogi per il suo ultimo romanzo, Libertà, non si può oggi non esultare per la pubblicazione della raccolta di testi non narrativi, Più lontano ancora (Frontiere Einaudi). Un'antologia che ruota intorno al senso della letteratura, e che al tempo stesso si nutre di letteratura e ne diffonde, tanto le sue pagine saggistiche (ma l'aggettivo è in qualche modo impreciso) ne sono ricche. Come il titolo già lascia intuire, il cuore del libro è il lungo testo L'isola più lontana, che è probabilmente il più onesto omaggio che uno scrittore abbia fatto al mai troppo compianto David Foster Wallace, di cui Franzen era, sinceramente, amico e, altrettanto sinceramente, rivale letterario. Nel racconto del viaggio robinsoniano che intraprende per raggiungere la sperdutissima e ostile isola di Masafuera, Franzen trova il modo - letterariamente, ma anche umanamente - di fare i conti con il suicidio di DFW, e le parole che usa sono durissime, ma limpide. Ma Franzen, che di Foster Wallace in qualche modo sembra rappresentare la parte che ha avuto successo (e questo lascia in lui una traccia fantasma di senso di colpa), fa i conti anche con se stesso, nello stesso modo impietoso con il quale parla dell'amico come di una persona malata di mente. Pagina dopo pagina, il lungo reportage somiglia sempre di più a un modo di salvare se stesso dall’ombra del suicidio dell’amico, e, in modo più tagliente, di salvarsi dall’idea che uccidendosi, David abbia in qualche modo “vinto”.



Il terreno su cui si muove il talento di scrittore di Franzen (in questo senso scrittore “assoluto”, ossia sciolto da quel mondo che costantemente lo insidia nelle sue attività solitarie, siano la scrittura o il birdwatching) è, come si vede, molto pericoloso. E la sensazione è che l’autore de Le Correzioni vada proprio a cercarsi questi campi minati morali, come si evince pure dai libri che recensisce, da Chrstina Stead a Donald Antrim, sempre disturbanti e sempre incentrati su famiglie devastate dalla voracità del legame di sangue.

Quando scrive di letteratura – ammesso che non lo faccia sempre, che è possibile – Franzen dimostra di trovarsi totalmente a proprio agio, pur nei cunicoli soffocanti dentro i quali si viene spesso a trovare. E in una conferenza sulla narrativa autobiografica ecco la “storica” pace con un arcinemico come Philip Roth: “Mi batto ancora – scrive Franzen – contro Pastorale americana, ma quando finalmente riuscii a leggere Il teatro di Sabbath, l’intrepidezza e la ferocia di quel libro mi furono di ispirazione”. Ecco il punto: la costante ricerca di una ferocia letteraria è la cifra della grandezza di Franzen, la sua inesausta indagine dentro le sue stesse nevrosi è la sua forza, lo sforzo di talento che ha sotteso la creazione de Le Correzioni, il cui segreto cuore incandescente brilla in molti dei testi raccolti nell’antologia. Un libro dove si dimostra che un grande scrittore produce letteratura anche facendo tutt’altro. (Perché null’altro esiste, a ben vedere).


02 novembre 2012

Paolo Cognetti, la “ferocia” e i limiti della narrativa italiana

Jonathan Franzen, in una memorabile conferenza sulla narrativa autobiografica (che ora si può leggere nella raccolta di saggi Più lontano ancora, fresco di stampa per Einaudi), parla della “intrepidezza e ferocia” de Il teatro di Sabbath di Philip Roth. Un giudizio che, corroborato dalla storica antipatia di Franzen per Roth, diventa ancora più esatto e che esprime un modo di essere non solo del capolavoro dello scrittore di Newark, ma anche della buona letteratura in generale. Quella stessa ferocia – fatta di una precisione e di una esattezza che va oltre la morale e il senso comune per entrare in un iperuranio di grandezza – che Paolo Cognetti, autore dell’interessante e apprezzato Sofia si veste sempre di nero (Minimum Fax), sembra essere andato a cercare in questo romanzo che racconta di una ragazza difficile, della sua famiglia e del Paese, il nostro, che ruota intorno a loro.

Il tentativo è certamente meritorio e molte pagine brillano di un nitore che può far esultare il lettore: la scena in cui Sofia bambina scopre il suo amichetto pirata, ospitato perché la madre è gravemente malata, addormentato nel letto in mezzo ai suoi (di Sofia) genitori, è perfetta. Così come sono perfette alcune frasi che lo scrittore, apparentemente incurante, lascia cadere in mezzo a paragrafi che di loro sarebbero ben più deboli: “Mi piacerebbe incontrarti in un posto normale”, leggiamo a un certo punto nella lettera di una ragazzina problematica. Oppure, poco oltre, ci imbattiamo nella scena in cui una Sofia a corto di fiato e con un trolley al seguito, non potendo prendere l’ascensore per via della claustrofobia, sentenzia implacabile: “Scale del cazzo”. E qui sentiamo che il talento, e la sua obliqua visione, ci sono tutti.



C’è però un limite, che sembra essere in qualche modo “nazionale”: la ferocia di Cognetti, della sua Sofia e di tutti i personaggi che le ruotano intorno, non riesce mai a elevarsi a quel livello in qualche modo assoluto, che è la cifra, per restare nell’esempio citato, del Sabbath di Roth. Come se in Italia non fosse possibile andare oltre il livello di Gomorra (senza nulla togliere al libro e al coraggio di Saviano, semplicemente qui si parla di un’altra cosa, la ferocia letteraria), e si cercasse sempre – e Cognetti lo fa a corrente alternata, ma talvolta la sensazione è che lo faccia – di arrivare, attraverso la letteratura, a una verità che potremmo definire “ideologica”, mentre i grandi libri partono da una delle possibili verità per arrivare al suo superamento artistico, ossia la grande letteratura.

In Italia c’è stata la ferocia di Pasolini, che oggi è passata nelle pagine di Walter Siti o di Nicola Lagioia e anche in alcuni lavori (come il magmatico e indimenticabile Italia De Profundis) di Giuseppe Genna, forse il più feroce in questo senso sfocato, ma troppo spesso il tentativo di dire qualcosa di più, sulla storia, sul costume, sull’ideologia (una malattia dalla quale non guariremo) finisce con l’indebolire la nostra letteratura. E quindi ecco alcune frasi che, pur essendo Cognetti molto bravo, sembrano essere il dazio da pagare a questa “italianità” latente: “Marta imparò a sparare quell’autunno, in montagna, in un corso d’addestramento tenuto da ex partigiani” oppure “Pensò che se uno avesse provato ad acchiapparla, avrebbe stretto aria”. Tra politica e quelle che Franzen definisce “cose carine” il talento di uno scrittore dotato come Cognetti rischia di perdersi un po’, diluendo l’effetto che molte delle pagine migliori di “Sofia si veste sempre di nero” – libro comunque difficile da dimenticare – hanno sul lettore. E, viene da pensare, se non ce la fa neppure uno bravo come lui, allora forse non ce la può fare (quasi) nessuno.