02 novembre 2012

Paolo Cognetti, la “ferocia” e i limiti della narrativa italiana

Jonathan Franzen, in una memorabile conferenza sulla narrativa autobiografica (che ora si può leggere nella raccolta di saggi Più lontano ancora, fresco di stampa per Einaudi), parla della “intrepidezza e ferocia” de Il teatro di Sabbath di Philip Roth. Un giudizio che, corroborato dalla storica antipatia di Franzen per Roth, diventa ancora più esatto e che esprime un modo di essere non solo del capolavoro dello scrittore di Newark, ma anche della buona letteratura in generale. Quella stessa ferocia – fatta di una precisione e di una esattezza che va oltre la morale e il senso comune per entrare in un iperuranio di grandezza – che Paolo Cognetti, autore dell’interessante e apprezzato Sofia si veste sempre di nero (Minimum Fax), sembra essere andato a cercare in questo romanzo che racconta di una ragazza difficile, della sua famiglia e del Paese, il nostro, che ruota intorno a loro.

Il tentativo è certamente meritorio e molte pagine brillano di un nitore che può far esultare il lettore: la scena in cui Sofia bambina scopre il suo amichetto pirata, ospitato perché la madre è gravemente malata, addormentato nel letto in mezzo ai suoi (di Sofia) genitori, è perfetta. Così come sono perfette alcune frasi che lo scrittore, apparentemente incurante, lascia cadere in mezzo a paragrafi che di loro sarebbero ben più deboli: “Mi piacerebbe incontrarti in un posto normale”, leggiamo a un certo punto nella lettera di una ragazzina problematica. Oppure, poco oltre, ci imbattiamo nella scena in cui una Sofia a corto di fiato e con un trolley al seguito, non potendo prendere l’ascensore per via della claustrofobia, sentenzia implacabile: “Scale del cazzo”. E qui sentiamo che il talento, e la sua obliqua visione, ci sono tutti.



C’è però un limite, che sembra essere in qualche modo “nazionale”: la ferocia di Cognetti, della sua Sofia e di tutti i personaggi che le ruotano intorno, non riesce mai a elevarsi a quel livello in qualche modo assoluto, che è la cifra, per restare nell’esempio citato, del Sabbath di Roth. Come se in Italia non fosse possibile andare oltre il livello di Gomorra (senza nulla togliere al libro e al coraggio di Saviano, semplicemente qui si parla di un’altra cosa, la ferocia letteraria), e si cercasse sempre – e Cognetti lo fa a corrente alternata, ma talvolta la sensazione è che lo faccia – di arrivare, attraverso la letteratura, a una verità che potremmo definire “ideologica”, mentre i grandi libri partono da una delle possibili verità per arrivare al suo superamento artistico, ossia la grande letteratura.

In Italia c’è stata la ferocia di Pasolini, che oggi è passata nelle pagine di Walter Siti o di Nicola Lagioia e anche in alcuni lavori (come il magmatico e indimenticabile Italia De Profundis) di Giuseppe Genna, forse il più feroce in questo senso sfocato, ma troppo spesso il tentativo di dire qualcosa di più, sulla storia, sul costume, sull’ideologia (una malattia dalla quale non guariremo) finisce con l’indebolire la nostra letteratura. E quindi ecco alcune frasi che, pur essendo Cognetti molto bravo, sembrano essere il dazio da pagare a questa “italianità” latente: “Marta imparò a sparare quell’autunno, in montagna, in un corso d’addestramento tenuto da ex partigiani” oppure “Pensò che se uno avesse provato ad acchiapparla, avrebbe stretto aria”. Tra politica e quelle che Franzen definisce “cose carine” il talento di uno scrittore dotato come Cognetti rischia di perdersi un po’, diluendo l’effetto che molte delle pagine migliori di “Sofia si veste sempre di nero” – libro comunque difficile da dimenticare – hanno sul lettore. E, viene da pensare, se non ce la fa neppure uno bravo come lui, allora forse non ce la può fare (quasi) nessuno.



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