Jonathan Franzen, in una memorabile conferenza sulla
narrativa autobiografica (che ora si può leggere nella raccolta di saggi Più
lontano ancora, fresco di stampa per Einaudi), parla della “intrepidezza e
ferocia” de Il teatro di Sabbath di Philip Roth. Un giudizio che, corroborato
dalla storica antipatia di Franzen per Roth, diventa ancora più esatto e che
esprime un modo di essere non solo del capolavoro dello scrittore di Newark, ma
anche della buona letteratura in generale. Quella stessa ferocia – fatta di una
precisione e di una esattezza che va oltre la morale e il senso comune per
entrare in un iperuranio di grandezza – che Paolo Cognetti, autore
dell’interessante e apprezzato Sofia si veste sempre di nero (Minimum Fax),
sembra essere andato a cercare in questo romanzo che racconta di una ragazza
difficile, della sua famiglia e del Paese, il nostro, che ruota intorno a loro.
Il tentativo è certamente meritorio e molte pagine brillano
di un nitore che può far esultare il lettore: la scena in cui Sofia bambina
scopre il suo amichetto pirata, ospitato perché la madre è gravemente malata,
addormentato nel letto in mezzo ai suoi (di Sofia) genitori, è perfetta. Così
come sono perfette alcune frasi che lo scrittore, apparentemente incurante,
lascia cadere in mezzo a paragrafi che di loro sarebbero ben più deboli: “Mi
piacerebbe incontrarti in un posto normale”, leggiamo a un certo punto nella
lettera di una ragazzina problematica. Oppure, poco oltre, ci imbattiamo nella
scena in cui una Sofia a corto di fiato e con un trolley al seguito, non
potendo prendere l’ascensore per via della claustrofobia, sentenzia
implacabile: “Scale del cazzo”. E qui sentiamo che il talento, e la sua obliqua
visione, ci sono tutti.
C’è però un limite, che sembra essere in qualche modo
“nazionale”: la ferocia di Cognetti, della sua Sofia e di tutti i personaggi
che le ruotano intorno, non riesce mai a elevarsi a quel livello in qualche
modo assoluto, che è la cifra, per restare nell’esempio citato, del Sabbath di
Roth. Come se in Italia non fosse possibile andare oltre il livello di Gomorra (senza nulla togliere al libro e al coraggio di Saviano,
semplicemente qui si parla di un’altra cosa, la ferocia letteraria), e si
cercasse sempre – e Cognetti lo fa a corrente alternata, ma talvolta la
sensazione è che lo faccia – di arrivare, attraverso la letteratura, a una
verità che potremmo definire “ideologica”, mentre i grandi libri partono da una
delle possibili verità per arrivare al suo superamento artistico, ossia la
grande letteratura.
In Italia c’è stata la ferocia di Pasolini, che oggi è
passata nelle pagine di Walter Siti o di Nicola Lagioia e anche in alcuni lavori
(come il magmatico e indimenticabile Italia De Profundis) di Giuseppe Genna,
forse il più feroce in questo senso sfocato, ma troppo spesso il tentativo di
dire qualcosa di più, sulla storia, sul costume, sull’ideologia (una malattia
dalla quale non guariremo) finisce con l’indebolire la nostra letteratura. E
quindi ecco alcune frasi che, pur essendo Cognetti molto bravo, sembrano essere
il dazio da pagare a questa “italianità” latente: “Marta imparò a sparare
quell’autunno, in montagna, in un corso d’addestramento tenuto da ex
partigiani” oppure “Pensò che se uno avesse provato ad acchiapparla, avrebbe
stretto aria”. Tra politica e quelle che Franzen definisce “cose carine” il
talento di uno scrittore dotato come Cognetti rischia di perdersi un po’,
diluendo l’effetto che molte delle pagine migliori di “Sofia si veste sempre di
nero” – libro comunque difficile da dimenticare – hanno sul lettore. E, viene
da pensare, se non ce la fa neppure uno bravo come lui, allora forse non ce la
può fare (quasi) nessuno.
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