Venezia, 23 aprile 2013
La voglia di fuggire
dall’assalto dei turisti è irresistibile talvolta, e porta a rifugiarsi a
Dorsoduro, sulla riva che guarda verso la Giudecca, sperando che lì, superati
diversi cumuli di spazzatura a bordo strada
e un paio di cantieri molto poco glamour, si possa respirare la vera aria,
salmastra e vagamente malsana di Venezia, quella città inimmaginabile fondata
per fuggire dai barbari, in un luogo così terribile che avrebbe scoraggiato
perfino i fieri inseguitori assetati di sangue umano. Ma, in un meriggio terso
di primavera, anche qui è arrivato lo sbandamento della civiltà, sotto forma di
gruppi di persone con grossi trolley da viaggio alla ricerca di informazioni,
di suadenti procacciatori di imbarcazioni e soprattutto, somma visione di
terrore, di un cameriere corpulento e baffuto stretto in una giacca arancione
tanto improbabile quanto alienante, perfetta per un personaggio da film di
Sorrentino che vive a metà tra il commercio e la violenza privata. Qui,
all’estrema periferia di un sogno mendace che ha lasciato sul terreno delle
vittime, come il tossico che dorme strafatto su una panchina di legno in campo
Sant’Agnese con la mano inerte appoggiata sulla testa di un enorme mastino
nero, quieto, ma pronto a qualunque cosa per difendere gli ultimi rantoli
drogati del suo padrone, si incontrano le ultime vestigia del presente,
frustrate come un marito quotidianamente respinto, alla ricerca disperata di
una quota di partecipazione nella società per azioni della rappresentazione.
Qualcosa che somiglia a Las Vegas, ultimo paradigma possibile e fagocitatore
dell’immaginario, talmente vorace da cancellare in un istante Rialto e San
Marco, il ponte dei Sospiri e il Canal Grande. I margini però si salvano, e qui
le pietre di Venezia ancora non sono affondate, pure se lo spirito di Ruskin se
ne è andato con l’ultimo vaporetto della sera. Qui si resta a bocca aperta,
anelando una Coca Cola a prezzi da strozzini, che abbia la forza di ancorare
qualcosa, almeno una minima parte di noi a quelle sedie metalliche rivestite,
scomode fino ai confini del dolore, ma necessarie per confermare, al prezzo dei
segni sulle natiche e di due ore di sciatalgia lombare, di esserci stati, di
avere, almeno un giorno, vissuto.
Poi arriva Manet, buttato
come una vittima predestinata nella follia multiforme di piazza San Marco,
crocifisso a Palazzo Ducale, messo alla gogna per il dileggio dei venditori di
maschere e magliette da gondoliere, corroso dal sale e dalla luce, con negli
occhi la tristezza del carcerato che vede l’isola di San Giorgio, la libertà
sotto forma di sogno del Tintoretto, ma che sa di non poterla mai raggiungere. E
allora si vendica con l’unico strumento che ha, la sua pittura, che riesce
nell’impresa di fare impallidire la Venere
di Urbino, pressata dalla cogente modernità della sua Olympia, che solo l’occhio superficiale considera semplicemente un
dipinto realista, così come tutto tranne che classico era il dipinto di
Tiziano. Ma qui, uno accanto all’altro in un miracolo che mette la pelle d’oca
al visitatore e che regala un brivido pure all’algido esperto di geopolitica
dell’arte, perché sa che Olympia non
aveva mai lasciato
Parigi prima d’ora e che l’unico modo per non farla sentire
così sola (ma questa gliela suggerisce un amico con velleità intellettuali) era
metterle accanto il suo modello rinascimentale, quella Venere benestante e
serena che, nell’Italia dei mille campanili artistici il tempio inviolabile
degli Uffizi mai avrebbe voluto prestare, ma se si muove il presidente Hollande
come si fa a dire un’altra volta no. E quindi, eccole qui, in silenziosa
competizione, da un lato la bellezza esatta e irraggiungibile della Dea pagana,
dall’altro la vicinanza storica di Olympia,
che per la prima volta, così accostata al Classico, scopriamo essere vera
nostra contemporanea e che ci guarda, certo con distacco, ma con un moto di
possibilità e di confidenza quasi sbada ta,
come dimostrano i sabot che le fanno da unico indumento. La folla di
giornalisti si ammassa qui, nessuno si cura della seconda versione del Déjeuner sur l’erbe, che
iconograficamente è comunque dirompente, e porta con sé un capitolo
fondamentale della storia dell’arte, con quel bollino di “Rifiuto” che è stato
il primo segnale della sua grandezza.
Ma la vendetta di Manet sui veneziani si consuma in modo ancora più subdolo con la copia del ritratto di Tintoretto – Tintoretto, che di certo era stato ai piedi della Croce e che vedeva, e dipingeva, fantasmi in quasi tutti i suoi quadri, Tintoretto che ha ambientatola sua Lavanda dei piedi in un film di Stanley Kubrick
e la sua Ultima cena in un refettorio fantascientifico
– che se ne sta da solo su una parete, pezzo unico in un’intera mostra
costruita sui doppi, e ti chiedi dove sia finito il dipinto impressionista,
visto che qui c’è soltanto il suo modello classico. Invece Venezia e Parigi, la
Serenissima e il Secondo Impero sono tutt’uno, burla che riscatta il
prigioniero dei Dogi, che scava la caverna del dubbio nello spettatore, adesso
completamente incerto su quello che potrebbe aspettarlo nelle sale successive. A suggellare la rottura
del patto narrativo ci avevano già pensato le mani di Venere e Olympia, socchiusa e quasi pornografica
quella di Tiziano, morbida e in fondo padrona del suo sesso, quella di Manet.
Il moderno ha ribaltato i tavoli, l’impressionismo da prima pagina è una bugia
ben conservata dal suo stesso inventore, il realismo, direbbe Walter Siti, è sempre l’impossibile. E quel trombone
di Emile Zola sorride con bonomia guardando Lorenzo Lotto, e in quella bonomia
c’è il trionfo, oggi indefettibile, di Edouard Manet. Pictor capto cepit ferum victorem.
Ma la vendetta di Manet sui veneziani si consuma in modo ancora più subdolo con la copia del ritratto di Tintoretto – Tintoretto, che di certo era stato ai piedi della Croce e che vedeva, e dipingeva, fantasmi in quasi tutti i suoi quadri, Tintoretto che ha ambientato
Della battaglia combattuta
dentro Palazzo Ducale, però, fuori arriva solo una flebile eco. Il tramestio
delle botteghe si mescola alla necessità di togliersi le felpe che assale tutti
i turisti. L’Harry’s Bar, forse spaventato da cotanta umanità, sigilla le
finestre con un lucchetto. Un operaio comunale getta colate di cemento indossando
un auricolare da agente segreto. Un clochard in piena regola si rinfresca in
una fontanella, mentre parla amabilmente al cellulare. Il ponte dell’Accademia
in controluce diventa un happening scultoreo di Giacometti, prima di venire
polverizzato all’istante dalla visione dei lucchetti – invero molto ordinati –
che i soliti fidanzatini senza eccessi di fantasia hanno fissato ai sostegni
metallici della struttura. La chiesa della Salute, da par suo, resta fissa,
nella sua opulenza confidenziale, a vegliare sulla Dogana e sulle zingare, con
occhi da fotografia premio Pulitzer, che stancamente provano a camuffarsi tra
tedeschi e americane. Manet è lontano, eppure è sempre qui, lo sento quando
sfioro la giacca sdrucita di una viaggiatrice solitaria, quella slabbratura del
suo vestiario è la pennellata
impressionista, quell’imprecisione nel suo modo di orientarsi (in una città
nella quale tentare di farlo è sostanzialmente inutile) è il grumo di colore che schiude le spiagge dell’Atlantico, fredde e
sabbiose come una madre troppo premurosa.
Non posso non interrogarmi su quanto il moderno ci incalzi, sulla sua forza che ha la subdola capacità di mettere in secondo piano il contemporaneo, e non solo per quanto riguarda l’arte (Peggy Guggenheim è giusto qui dietro, tanto per non fare nomi), ma soprattutto per quanto riguarda la percezione del tempo individuale. Manet è diventato eterno, da scapigliato ai suoi tempi certo, ma eterno. Noi continuiamo a rimanere soggetti transeunti, passeggeri di una metropolitana dai cui convogli vediamo passare il mondo, lontano, inarrivabile. Dov’è il presente, chiedo a un turista russo, che ovviamente non mi capisce. Dov’è il presente, chiedo al fantasma di David Hume, che con quella parrucca non sfigurerebbe accanto ai promoter di un teatro che abbordano i passanti davanti all’ingresso – trionfale – della Galleria Contini, e lui, ovviamente se la cava con una risata che suona, forse al di là delle sue stesse intenzioni, beffarda. Semplicemente, mi risponde una mezza testa colossale di Mitoraj, il presente non esiste. “Il presente – dice – sono io”. A quel punto mi inginocchio, firmo la capitolazione sulla mia portaerei personale e mi arrendo. Dei giapponesi, ironie della storia, fotografano la scena.
Non posso non interrogarmi su quanto il moderno ci incalzi, sulla sua forza che ha la subdola capacità di mettere in secondo piano il contemporaneo, e non solo per quanto riguarda l’arte (Peggy Guggenheim è giusto qui dietro, tanto per non fare nomi), ma soprattutto per quanto riguarda la percezione del tempo individuale. Manet è diventato eterno, da scapigliato ai suoi tempi certo, ma eterno. Noi continuiamo a rimanere soggetti transeunti, passeggeri di una metropolitana dai cui convogli vediamo passare il mondo, lontano, inarrivabile. Dov’è il presente, chiedo a un turista russo, che ovviamente non mi capisce. Dov’è il presente, chiedo al fantasma di David Hume, che con quella parrucca non sfigurerebbe accanto ai promoter di un teatro che abbordano i passanti davanti all’ingresso – trionfale – della Galleria Contini, e lui, ovviamente se la cava con una risata che suona, forse al di là delle sue stesse intenzioni, beffarda. Semplicemente, mi risponde una mezza testa colossale di Mitoraj, il presente non esiste. “Il presente – dice – sono io”. A quel punto mi inginocchio, firmo la capitolazione sulla mia portaerei personale e mi arrendo. Dei giapponesi, ironie della storia, fotografano la scena.
Leonardo Merlini
© Kilgore
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