26 aprile 2013

Déjeuner sulla Laguna

Venezia, 23 aprile 2013

La voglia di fuggire dall’assalto dei turisti è irresistibile talvolta, e porta a rifugiarsi a Dorsoduro, sulla riva che guarda verso la Giudecca, sperando che lì, superati diversi cumuli di spazzatura a bordo strada e un paio di cantieri molto poco glamour, si possa respirare la vera aria, salmastra e vagamente malsana di Venezia, quella città inimmaginabile fondata per fuggire dai barbari, in un luogo così terribile che avrebbe scoraggiato perfino i fieri inseguitori assetati di sangue umano. Ma, in un meriggio terso di primavera, anche qui è arrivato lo sbandamento della civiltà, sotto forma di gruppi di persone con grossi trolley da viaggio alla ricerca di informazioni, di suadenti procacciatori di imbarcazioni e soprattutto, somma visione di terrore, di un cameriere corpulento e baffuto stretto in una giacca arancione tanto improbabile quanto alienante, perfetta per un personaggio da film di Sorrentino che vive a metà tra il commercio e la violenza privata. Qui, all’estrema periferia di un sogno mendace che ha lasciato sul terreno delle vittime, come il tossico che dorme strafatto su una panchina di legno in campo Sant’Agnese con la mano inerte appoggiata sulla testa di un enorme mastino nero, quieto, ma pronto a qualunque cosa per difendere gli ultimi rantoli drogati del suo padrone, si incontrano le ultime vestigia del presente, frustrate come un marito quotidianamente respinto, alla ricerca disperata di una quota di partecipazione nella società per azioni della rappresentazione. Qualcosa che somiglia a Las Vegas, ultimo paradigma possibile e fagocitatore dell’immaginario, talmente vorace da cancellare in un istante Rialto e San Marco, il ponte dei Sospiri e il Canal Grande. I margini però si salvano, e qui le pietre di Venezia ancora non sono affondate, pure se lo spirito di Ruskin se ne è andato con l’ultimo vaporetto della sera. Qui si resta a bocca aperta, anelando una Coca Cola a prezzi da strozzini, che abbia la forza di ancorare qualcosa, almeno una minima parte di noi a quelle sedie metalliche rivestite, scomode fino ai confini del dolore, ma necessarie per confermare, al prezzo dei segni sulle natiche e di due ore di sciatalgia lombare, di esserci stati, di avere, almeno un giorno, vissuto.


Poi arriva Manet, buttato come una vittima predestinata nella follia multiforme di piazza San Marco, crocifisso a Palazzo Ducale, messo alla gogna per il dileggio dei venditori di maschere e magliette da gondoliere, corroso dal sale e dalla luce, con negli occhi la tristezza del carcerato che vede l’isola di San Giorgio, la libertà sotto forma di sogno del Tintoretto, ma che sa di non poterla mai raggiungere. E allora si vendica con l’unico strumento che ha, la sua pittura, che riesce nell’impresa di fare impallidire la Venere di Urbino, pressata dalla cogente modernità della sua Olympia, che solo l’occhio superficiale considera semplicemente un dipinto realista, così come tutto tranne che classico era il dipinto di Tiziano. Ma qui, uno accanto all’altro in un miracolo che mette la pelle d’oca al visitatore e che regala un brivido pure all’algido esperto di geopolitica dell’arte, perché sa che Olympia non aveva mai lasciato Parigi prima d’ora e che l’unico modo per non farla sentire così sola (ma questa gliela suggerisce un amico con velleità intellettuali) era metterle accanto il suo modello rinascimentale, quella Venere benestante e serena che, nell’Italia dei mille campanili artistici il tempio inviolabile degli Uffizi mai avrebbe voluto prestare, ma se si muove il presidente Hollande come si fa a dire un’altra volta no. E quindi, eccole qui, in silenziosa competizione, da un lato la bellezza esatta e irraggiungibile della Dea pagana, dall’altro la vicinanza storica di Olympia, che per la prima volta, così accostata al Classico, scopriamo essere vera nostra contemporanea e che ci guarda, certo con distacco, ma con un moto di possibilità e di confidenza quasi sbadata, come dimostrano i sabot che le fanno da unico indumento. La folla di giornalisti si ammassa qui, nessuno si cura della seconda versione del Déjeuner sur l’erbe, che iconograficamente è comunque dirompente, e porta con sé un capitolo fondamentale della storia dell’arte, con quel bollino di “Rifiuto” che è stato il primo segnale della sua grandezza. 

Ma la vendetta di Manet sui veneziani si consuma in modo ancora più subdolo con la copia del ritratto di Tintoretto – Tintoretto, che di certo era stato ai piedi della Croce e che vedeva, e dipingeva, fantasmi in quasi tutti i suoi quadri, Tintoretto che ha ambientato la sua Lavanda dei piedi in un film di Stanley Kubrick e la sua Ultima cena in un refettorio fantascientifico – che se ne sta da solo su una parete, pezzo unico in un’intera mostra costruita sui doppi, e ti chiedi dove sia finito il dipinto impressionista, visto che qui c’è soltanto il suo modello classico. Invece Venezia e Parigi, la Serenissima e il Secondo Impero sono tutt’uno, burla che riscatta il prigioniero dei Dogi, che scava la caverna del dubbio nello spettatore, adesso completamente incerto su quello che potrebbe aspettarlo nelle sale successive. A suggellare la rottura del patto narrativo ci avevano già pensato le mani di Venere e Olympia, socchiusa e quasi pornografica quella di Tiziano, morbida e in fondo padrona del suo sesso, quella di Manet. Il moderno ha ribaltato i tavoli, l’impressionismo da prima pagina è una bugia ben conservata dal suo stesso inventore, il realismo, direbbe Walter Siti, è sempre l’impossibile. E quel trombone di Emile Zola sorride con bonomia guardando Lorenzo Lotto, e in quella bonomia c’è il trionfo, oggi indefettibile, di Edouard Manet. Pictor capto cepit ferum victorem.



Della battaglia combattuta dentro Palazzo Ducale, però, fuori arriva solo una flebile eco. Il tramestio delle botteghe si mescola alla necessità di togliersi le felpe che assale tutti i turisti. L’Harry’s Bar, forse spaventato da cotanta umanità, sigilla le finestre con un lucchetto. Un operaio comunale getta colate di cemento indossando un auricolare da agente segreto. Un clochard in piena regola si rinfresca in una fontanella, mentre parla amabilmente al cellulare. Il ponte dell’Accademia in controluce diventa un happening scultoreo di Giacometti, prima di venire polverizzato all’istante dalla visione dei lucchetti – invero molto ordinati – che i soliti fidanzatini senza eccessi di fantasia hanno fissato ai sostegni metallici della struttura. La chiesa della Salute, da par suo, resta fissa, nella sua opulenza confidenziale, a vegliare sulla Dogana e sulle zingare, con occhi da fotografia premio Pulitzer, che stancamente provano a camuffarsi tra tedeschi e americane. Manet è lontano, eppure è sempre qui, lo sento quando sfioro la giacca sdrucita di una viaggiatrice solitaria, quella slabbratura del suo vestiario è la pennellata impressionista, quell’imprecisione nel suo modo di orientarsi (in una città nella quale tentare di farlo è sostanzialmente inutile) è il grumo di colore che schiude le spiagge dell’Atlantico, fredde e sabbiose come una madre troppo premurosa. 
Non posso non interrogarmi su quanto il moderno ci incalzi, sulla sua forza che ha la subdola capacità di mettere in secondo piano il contemporaneo, e non solo per quanto riguarda l’arte (Peggy Guggenheim è giusto qui dietro, tanto per non fare nomi), ma soprattutto per quanto riguarda la percezione del tempo individuale. Manet è diventato eterno, da scapigliato ai suoi tempi certo, ma eterno. Noi continuiamo a rimanere soggetti transeunti, passeggeri di una metropolitana dai cui convogli vediamo passare il mondo, lontano, inarrivabile. Dov’è il presente, chiedo a un turista russo, che ovviamente non mi capisce. Dov’è il presente, chiedo al fantasma di David Hume, che con quella parrucca non sfigurerebbe accanto ai promoter di un teatro che abbordano i passanti davanti all’ingresso – trionfale – della Galleria Contini, e lui, ovviamente se la cava con una risata che suona, forse al di là delle sue stesse intenzioni, beffarda. Semplicemente, mi risponde una mezza testa colossale di Mitoraj, il presente non esiste. “Il presente – dice – sono io”. A quel punto mi inginocchio, firmo la capitolazione sulla mia portaerei personale e mi arrendo. Dei giapponesi, ironie della storia, fotografano la scena.


Leonardo Merlini
© Kilgore Magazine

25 aprile 2013

L'estasi di Lethem tra plagi, saggi e autobiografie

“Che fioriscano milioni di canoni. Canoni, però, che non derivino da imperativi autoritari, bensì da un’urgente esplorazione personale. Costruitevi il vostro e indossatelo, come un esoscheletro multicolore”. Ci vuole un notevole talento per riuscire a mettere insieme il presidente Mao e il critico Harold Bloom in una frase tanto brillante ed evocativa. Ma se lo scrittore è Jonatham Lethem, uno dei grandi contemporanei della scena letteraria statunitense, ecco che tutto si spiega. Perché la bravura di un romanziere si comprende meglio anche guardando le sue prove di non fiction, come quelle raccolte da Bompiani nel brillante e spassoso L’estasi dell’influenza, che raccoglie numerosi testi saggistici di Lethem, tra cui il celebre manifesto (dichiaratamente plagiario, ex post) a favore di qualcosa che potremmo chiamare “plagio creativo” e che dà il titolo a tutta la raccolta di scritti. Saccheggiando dalle fonti più disparate – da Mary Shelley a Guerre Stellari, passando, così, per David Foster Wallace, tutte le influenze sono dichiarate nelle note a fine testo – Lethem costruisce la sua personale e appassionata risposta alla celeberrima “angoscia dell’influenza” del già citato Bloom e lo fa alla maniera di un critico interessante come David Shields (riprendete in mano il suo Fame di realtà, ne vale sempre la pena), arrivando alla chiarezza di affermazioni come questa: “Qualunque testo sia penetrato nell’immaginario quanto Via col vento o Lolita o Ulisse si fonde inesorabilmente con il linguaggio della cultura. Come una cartina geografica trasformatasi in paesaggio, va a collocarsi al di là di ogni recinzione e controllo”. E in questo territorio, divenuto in qualche modo pubblico, va in scena l’estasi del lasciarsi contaminare dalla grandezza (o a volte solo dalla forte qualità pop) degli esempi che ci permeano. Vero o falso, a ciascuno la propria risposta, ma la questione è senza dubbio ben posta.



Nelle pagine saggistiche di Jonathan Lethem passano anche molti momenti di autobiografia, sempre gustosi e nel solco di una scrittura che ha fatto grandi romanzi come Brooklyn senza madre o La fortezza della solitudine. Partendo dal presupposto – vertiginoso e divertente – che, leggiamo nella prefazione, “anche il lettore della prefazione è una finzione”. E poco oltre: “Io sono il perturbato che cerco di confortare, e anche il confortato che cerco di perturbare”. Sembra paradossale, ma è una definizione assolutamente esatta.

Tra ricordi personali e fantascienza, ovviamente con la costante presenza in spiritu di Philip Dick, capita di incontrare gente come John Wayne o Marlon Brando, Bob Dylan o James Brown. E poi si arriva al saggio su 2666 di Roberto Bolaño, scrittore con cui Lethem riesce a stabilire una connessione molto significativa. Il romanzo del gran cileno sembra, secondo lo scrittore di Brooklyn, contenere tutti i nomi umani e leggere nel pensiero del lettore che lo sta leggendo. E la chiosa è memorabile e universale: “Scrivendo – attraverso la grana dei sui dubbi – di ciò che la letteratura può fare, domandandosi fino a che punto essa possa scoprire o osar pronunciare i nomi delle sciagure del nostro mondo, Bolaño ha dimostrato che la letteratura può fare qualunque cosa e, per un istante almeno, dar nome all’innominabile”. Lanciamo i nostri cappelli in aria per Bolaño, come invita a fare Lethem, ma anche per l’ottimo Jonathan.