“Che fioriscano milioni di canoni. Canoni, però, che non
derivino da imperativi autoritari, bensì da un’urgente esplorazione personale.
Costruitevi il vostro e indossatelo, come un esoscheletro multicolore”. Ci
vuole un notevole talento per riuscire a mettere insieme il presidente Mao e il
critico Harold Bloom in una frase tanto brillante ed evocativa. Ma se lo
scrittore è Jonatham Lethem, uno dei grandi contemporanei della scena
letteraria statunitense, ecco che tutto si spiega. Perché la bravura di un
romanziere si comprende meglio anche guardando le sue prove di non fiction,
come quelle raccolte da Bompiani nel brillante e spassoso L’estasi dell’influenza, che raccoglie numerosi testi saggistici di
Lethem, tra cui il celebre manifesto (dichiaratamente plagiario, ex post) a
favore di qualcosa che potremmo chiamare “plagio creativo” e che dà il titolo a
tutta la raccolta di scritti. Saccheggiando dalle fonti più disparate – da Mary
Shelley a Guerre Stellari, passando, così, per David Foster Wallace, tutte le
influenze sono dichiarate nelle note a fine testo – Lethem costruisce la sua
personale e appassionata risposta alla celeberrima “angoscia dell’influenza”
del già citato Bloom e lo fa alla maniera di un critico interessante come David
Shields (riprendete in mano il suo Fame
di realtà, ne vale sempre la pena), arrivando alla chiarezza di
affermazioni come questa: “Qualunque testo sia penetrato nell’immaginario
quanto Via col vento o Lolita o Ulisse si fonde inesorabilmente con il
linguaggio della cultura. Come una cartina geografica trasformatasi in
paesaggio, va a collocarsi al di là di ogni recinzione e controllo”. E in
questo territorio, divenuto in qualche modo pubblico, va in scena l’estasi del
lasciarsi contaminare dalla grandezza (o a volte solo dalla forte qualità pop)
degli esempi che ci permeano. Vero o falso, a ciascuno la propria risposta, ma
la questione è senza dubbio ben posta.
Nelle pagine saggistiche di Jonathan Lethem passano anche
molti momenti di autobiografia, sempre gustosi e nel solco di una scrittura che
ha fatto grandi romanzi come Brooklyn
senza madre o La fortezza della
solitudine. Partendo dal presupposto – vertiginoso e divertente – che,
leggiamo nella prefazione, “anche il lettore della prefazione è una finzione”.
E poco oltre: “Io sono il perturbato che cerco di confortare, e anche il
confortato che cerco di perturbare”. Sembra paradossale, ma è una definizione
assolutamente esatta.
Tra ricordi personali e fantascienza, ovviamente con la
costante presenza in spiritu di Philip Dick, capita di incontrare gente come
John Wayne o Marlon Brando, Bob Dylan o James Brown. E poi si arriva al saggio
su 2666 di Roberto Bolaño, scrittore
con cui Lethem riesce a stabilire una connessione molto significativa. Il
romanzo del gran cileno sembra, secondo lo scrittore di Brooklyn, contenere
tutti i nomi umani e leggere nel pensiero del lettore che lo sta leggendo. E la
chiosa è memorabile e universale: “Scrivendo – attraverso la grana dei sui
dubbi – di ciò che la letteratura può fare, domandandosi fino a che punto essa
possa scoprire o osar pronunciare i nomi delle sciagure del nostro mondo,
Bolaño ha dimostrato che la letteratura può fare qualunque cosa e, per un
istante almeno, dar nome all’innominabile”. Lanciamo i nostri cappelli in aria
per Bolaño, come invita a fare Lethem, ma anche per l’ottimo Jonathan.
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