25 aprile 2013

L'estasi di Lethem tra plagi, saggi e autobiografie

“Che fioriscano milioni di canoni. Canoni, però, che non derivino da imperativi autoritari, bensì da un’urgente esplorazione personale. Costruitevi il vostro e indossatelo, come un esoscheletro multicolore”. Ci vuole un notevole talento per riuscire a mettere insieme il presidente Mao e il critico Harold Bloom in una frase tanto brillante ed evocativa. Ma se lo scrittore è Jonatham Lethem, uno dei grandi contemporanei della scena letteraria statunitense, ecco che tutto si spiega. Perché la bravura di un romanziere si comprende meglio anche guardando le sue prove di non fiction, come quelle raccolte da Bompiani nel brillante e spassoso L’estasi dell’influenza, che raccoglie numerosi testi saggistici di Lethem, tra cui il celebre manifesto (dichiaratamente plagiario, ex post) a favore di qualcosa che potremmo chiamare “plagio creativo” e che dà il titolo a tutta la raccolta di scritti. Saccheggiando dalle fonti più disparate – da Mary Shelley a Guerre Stellari, passando, così, per David Foster Wallace, tutte le influenze sono dichiarate nelle note a fine testo – Lethem costruisce la sua personale e appassionata risposta alla celeberrima “angoscia dell’influenza” del già citato Bloom e lo fa alla maniera di un critico interessante come David Shields (riprendete in mano il suo Fame di realtà, ne vale sempre la pena), arrivando alla chiarezza di affermazioni come questa: “Qualunque testo sia penetrato nell’immaginario quanto Via col vento o Lolita o Ulisse si fonde inesorabilmente con il linguaggio della cultura. Come una cartina geografica trasformatasi in paesaggio, va a collocarsi al di là di ogni recinzione e controllo”. E in questo territorio, divenuto in qualche modo pubblico, va in scena l’estasi del lasciarsi contaminare dalla grandezza (o a volte solo dalla forte qualità pop) degli esempi che ci permeano. Vero o falso, a ciascuno la propria risposta, ma la questione è senza dubbio ben posta.



Nelle pagine saggistiche di Jonathan Lethem passano anche molti momenti di autobiografia, sempre gustosi e nel solco di una scrittura che ha fatto grandi romanzi come Brooklyn senza madre o La fortezza della solitudine. Partendo dal presupposto – vertiginoso e divertente – che, leggiamo nella prefazione, “anche il lettore della prefazione è una finzione”. E poco oltre: “Io sono il perturbato che cerco di confortare, e anche il confortato che cerco di perturbare”. Sembra paradossale, ma è una definizione assolutamente esatta.

Tra ricordi personali e fantascienza, ovviamente con la costante presenza in spiritu di Philip Dick, capita di incontrare gente come John Wayne o Marlon Brando, Bob Dylan o James Brown. E poi si arriva al saggio su 2666 di Roberto Bolaño, scrittore con cui Lethem riesce a stabilire una connessione molto significativa. Il romanzo del gran cileno sembra, secondo lo scrittore di Brooklyn, contenere tutti i nomi umani e leggere nel pensiero del lettore che lo sta leggendo. E la chiosa è memorabile e universale: “Scrivendo – attraverso la grana dei sui dubbi – di ciò che la letteratura può fare, domandandosi fino a che punto essa possa scoprire o osar pronunciare i nomi delle sciagure del nostro mondo, Bolaño ha dimostrato che la letteratura può fare qualunque cosa e, per un istante almeno, dar nome all’innominabile”. Lanciamo i nostri cappelli in aria per Bolaño, come invita a fare Lethem, ma anche per l’ottimo Jonathan.


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