Accanto a Bolaño e ai suoi detective selvaggi
Il saggio apparso su Minima&Moralia
Un sentiero di terra battuta in un giorno
particolarmente afoso, il cane che mi precede e le mie scarpe impolverate,
orfane. La Valpada na come il deserto
di Sonora. Un cielo incombente nel pieno mezzogiorno messicano e delle figure
ferme nella luce, disperse appena fuori dal giardino di casa, lontano e al
tempo stesso vicinissime a Macondo, ma in un'altra galassia, o in un'altra
dimensione, condannata all'incomunicabilità. Uno scrittore che fuma e mi parla,
protetto dalla notte e dalle piante di Villa Torlonia, mi parla per quindici
lunghi minuti davanti a una telecamera, mi parla di un altro scrittore che, in
qualche misura, sono stato io a fargli leggere. Una sera sulla costa della
Catalogna, l'odore del mare e delle creme solari, nauseabonde e dolcissime,
mentre da qualche parte suona un telefono e l'uomo seduto accanto
all'apparecchio decide consapevolmente di non rispondere. Heroismo sin alegría, potrebbe dire il poeta Pablo de Rokha[1].
Alegría sin Heroismo potremmo
replicare: entrambe le definizioni funzionano, quando si parla di un romanzo
come I detective selvaggi di Roberto
Bolaño, un libro che, ha scritto Mónica Maristain, "ha cambiato il corso
della letteratura latinoamericana. E lo ha fatto senza preavviso e senza
chiedere il permesso"[2].
Era il 1998, e perché il mondo se ne accorgesse c'è voluto del tempo, non
troppo, ma quanto bastava per spingere Bolaño, già malato e con soli altri
cinque anni da vivere, tentando di raccontare almeno un paio di universi
completi (questo, e non il fegato marcio, avrebbe ucciso qualunque altro
scrittore, ma il Cileno era allenato alla competizione più spinta, e aveva le
sue astuzie, seppur tragiche) e di salvare la propria famiglia (i suoi due
figli, "unica patria" di un apolide geniale e ostinato), a diventare
una leggenda, anche per l'infelice vicenda biografica, grazie soprattutto alla
venerazione alla quale è stato esposto negli Stati Uniti, fatto talmente
insolito per un autore straniero da apparire sospetto, se non si parlasse di
uno scrittore capace di essere contemporaneamente un vero outsider e un
creatore di una nuova tipologia di segreto mainstream.
Una leggenda, dicevamo, che è diventata anche fenomeno editoriale (quasi) di
massa, argomento di conversazioni eleganti, un must in società. Anche. Ma che ha tuttora lo straordinario potere
di farmi innamorare di due sorelle che tornano sempre uguali in molti suoi
libri, solo con i nomi cambiati (e talvolta neppure troppo) e di farmi sentire
a casa, felice, anche in una taverna zozza piena di brutti ceffi. O di pensare
per giorni interi a un libro di geometria steso come un paio di pantaloni sotto
le stelle del Messico. Lo stesso Paese dove, pochi giorni fa, è morto Gabriel
García Márquez. La stessa città (il Distrito
Federal) dove si muovono i poeti spacciatori Arturo Belano e Ulises Lima. E
qui dovevamo arrivare. Sotto le celebri nuvole[3].
È successo che, a metà di un giorno di una
primavera piemontese, mentre poco più in là il premio Nobel Dario Fo
sproloquiava con mestiere sotto lo sguardo amorevole di sua moglie (uno sguardo
vero, come ne ho visti pochi altri), mi sia messo a discutere di Bolaño con
Jonathan Lethem. Lo cosa interessante, dal mio punto di vista, è che in breve
si è fatto quasi a gara a chi mostrasse più entusiasmo per il Cileno e per il
suo mondo letterario (tanto che a un certo punto qualcuno di noi, forse
entrambi allo stesso tempo, abbiamo pronunciato pure le parole Mantra e Rodrigo Fresán, titolo e autore di un romanzo che non è mai stato
pubblicato nelle nostre rispettive lingue e che, all'epoca per lo meno, non era
neppure acquistabile in castigliano). Era un'intesa tra persone lontane, un
momento da poeti realvisceralisti, infantile e inebriante nello stesso momento.
Quindi per me indimenticabile, come parlare con una rockstar di un comune amico,
Roberto, che in una notte di Girona di fine XX secolo ho, a posteriori, sognato
di avere incrociato, senza riconoscerlo ovviamente, sotto la luce fredda dei
lampioni di quella città piena di automobilisti aggressivi e momenti di
clamoroso silenzio. Era lì, camminava lento, stava scrivendo i Detective, forse voleva comprarsi un
panino, forse, come il protagonista del memorabile racconto Sensini[4], stava cercando
una ragazza che viveva dall'altra parte del mondo ma che, di lì a non molto,
avrebbe davvero suonato alla porta.
Entra, certo. Ho del
caffè. Abbiamo tempo, possiamo parlare di molte cose, se ti va.
Le parole di Lethem, questa volta scritte,
hanno qualcosa di acuminato quando affrontano il tema dei dubbi di Bolaño, come
quello "che la vita, in tutto il suo raccapricciante splendore, possa mai
localizzare la letteratura di cui ha un disperato desiderio al fine di sentirsi
riconosciuta"[5]. Il congiuntivo, quel
"che possa", contiene tutto il senso di una ricerca che è tanto
urgente quanto provvisoria, un bisogno circolare
come le rovine di Borges (che sono le nostre rovine, il nostro fuoco di ogni giorno per citare pure il
"nemico"[6] don Octavio Paz),
destinato a incerta e sempre parziale soddisfazione, o quantomeno a un
risultato che non può che essere di un'oscurità inquietante, cosa che peraltro
costituisce la sua forza (ho riassunto, ma è ancora farina del sacco di
Lethem). Di qui, da questa ricerca che sembra partire dal momento in cui un
uomo ha tracciato una storia sulle pareti di una caverna[7]
o su una tavoletta d'argilla che adesso se ne sta vagamente trascurata - seppur
altezzosa - al British Museum, si muovono anche Belano e Lima, attori e vittime
di un'impresa che nasce prima di tutto sul terreno della letteratura, e poi si
sposta sulla loro pelle di personaggi di fiction. Una pelle che brucia, una Pelle Divina, che è anche il nome di uno
dei protagonisti dei Detective, uno
dei più lontani, in un romanzo nel quale tutto sembra lontano almeno cent'anni
(e sono necessariamente anni di solitudine,
ma anche di pura e semplice distanza, dove la struttura narrativa è così forte
e incistata da annullare ogni sovrastruttura, esaltando il vuoto e la non
necessità di un percorso ideologico, pur nell'opera di un autore che era ideologico. È l'oggetto che vi pensa, ricordava Baudrillard[8],
in questo caso è l'opera dello scrittore a creare lo scrittore stesso, non solo
nel senso della bibliografia, ma tout
court, come una metafisica creazionista dell'influenza alla Harold Bloom[9]).
La ricerca della poetessa Cesárea Tinajero, la madre del realvisceralismo,
quindi nell'ottica della narrazione della Madre con la emme maiuscola, è la
trasposizione della localizzazione e del riconoscimento di cui scriveva Lethem.
Due cose semplici, primordiali, che puntano dirette, come un mirino agli
infrarossi, alla nostra attenzione. Strategie, trappolamenti, mestiere, che
aprono la strada al successo
internazionale di Bolaño, ma che non
sono il gradiente finale della sua opera, che resta per buona parte sfuggente[10],
impossibile da circoscrivere, eppure abilmente - perché anche qui entra in
campo il lavoro dello scrittore - costruita da un uomo che, tra i tanti
mestieri strampalati della sua vita errabonda era, in fondo, solo un grande scrittore. Il massimo
della naturalezza - ha detto qualcuno capace di cogliere verità essenziali - si
ottiene solo con il massimo dell'artificio. A questo punto dovreste applaudire.
Ho davanti la nuova traduzione de I detective selvaggi, che l'ispanista
Ilide Carmignani ha realizzato per Adelphi. Ho davanti il volume giallo che
nasconde una felicità segreta, qualcosa che assomiglia all'angolo di strada verso il quale corrono due amanti o due
cospiratori alla ricerca di uno spazio privato, lontano dagli occhi della
Città. Dentro c'è anche un pezzo di me, della mia esperienza di lettore, e
quindi della mia autobiografia minima. E mi rendo conto che la risposta alla
domanda di Novalis su dove stiamo andando[11]
non è più "sempre verso casa", ma è diventata "da nessuna
parte", e nessuna parte è, ovviamente, ovunque,
per sempre, all'infinito. La ricorsività dell'accidentale, il punto magnetico
che unisce Bolaño a David Foster Wallace, due cinquantenni mancati che hanno
ritinteggiato le pareti letterarie di un piccolo appartamento, il nostro. “La
pagina di entrambi – ha scritto con delicata precisione Filippo La Porta – è
come incrinata da un lutto originario, da una frattura appena percettibile e
non rimarginabile”[12].
"Come Wallace in Infinite Jest -
aggiunge Lethem tornando a contestualizzare - Bolaño ne I detective selvaggi ha offerto un'epica autentica, immune da ogni
ostentazione grazie all'ironia compassionevole, all'arguzia vernacolare e un
vago defilarsi decisamente punk"[13].
Un'epica, direbbe il cileno, che sa essere ammiccante come una puttana, ma una
"puttana onesta"[14].
E l'aggettivo, nel sistema valoriale che lo sostiene, fa la differenza. Con
buona pace di tutto il resto, che non è per forza silenzio, ma che, di fronte
alla implacabile irruenza di un romanzo monstre
(che pure giganteggia in modo apparentemente noncurante, e qui sta parte del
miracolo) non può che rimpicciolire sempre di più, riducendosi alle dimensioni
di una micro installazione dell'artista brasiliano Cildo Meireles, Cruzeiro do Sul, che solo una luce sul
pavimento[15] ci permette di
distinguere e, ancora questo verbo seminale, riconoscere come opera d'arte.
"Se ci si tira indietro di fronte al
cannibalismo - scrive Walter Siti - non resta che chiedere permesso all'ovvietà[16]".
Bolaño trova la via alla sua personale ferocia letteraria[17]
attraverso il cruento - più che mai in 2666
- ma anche grazie alle giustapposizioni sentimentali, alle ossessioni, ai
luoghi rivisitati in chiave straniante, come nel caso della tenerezza che, nei Detective, trasuda da ogni descrizione
di Città del Messico, che negli anni Settanta doveva essere un posto discretamente
caotico e pericoloso (nessuna ovvietà, dunque). Ecco, qui c'è Bolaño, lo
scrittore coraggioso che il suo editore catalano Jorge Herralde descrive in
modo contraddittoriamente perfetto quando parla del suo atteggiamento verso la
salute: "Altero, caparbio, provocatorio, stoico, kamikaze e con la testa
sotto la sabbia"[18].
Parole che sembrano valere anche fuori dalla sfortunata biografia clinica del
cileno, e che sono anche una finestra per guardare alla sua opera letteraria,
nella quale l'incertezza e la sfocatura sono elementi strutturali, ovviamente
al pari della precisione e del dettaglio, che regolarmente arrivano a
dissipare, almeno per un poco, la nebbia del mistero. Ne I detective selvaggi, poi, a pesare enormemente, nonché a dare al
romanzo quel suo inconfondibile ritmo schizofrenico e amoroso (perché l'amore è
adolescenzialmente fondamentale in
ogni pagina, soprattutto in quelle in cui non se ne parla), è l'architettura
complessiva della narrazione, con la struggente parte centrale nella quale si
alternano decine di narratori, vero momento in cui Roberto Bolaño ribalta il
tavolo del romanzo contemporaneo e costringe tutti a fare i conti con lui.
Anche il tempo della narrazione diventa una sorta di personaggio e qui, sebbene
sia nota (e controversa, almeno stando ad altre dichiarazioni più concilianti
su García Márquez) la sentenza bolaniana sul realismo magico che "fa
schifo", non si possono non notare i punti di contiguità con la lezione,
se non si vuole dire proprio del Gabo
ufficiale, almeno con quella per molti versi anche più incisiva, del miglior
Salman Rushdie, ai tempi, per intenderci, de I figli del Mezzanotte. Con la differenza che Bolaño racconta della
perdita, e non dell'invenzione, di una patria. Ma per il cileno a diventare
patria, oltre ai già citati due figli, è la letteratura stessa, che gli
fornisce l'opportunità di guada gnarsi
da vivere - per lungo tempo in modo modesto - e di trovare una collocazione nel
mondo borgesiano della Biblioteca infinita. "In un modo o nell'altro - ha
detto in un'intervista a Héctor Soto e Matías Bravo - siamo tutti legati a un
libro. Una biblioteca è come una metafora dell'essere umano o della parte
migliore di un essere umano. Così come un campo di concentramento può essere
una metafora della sua parte peggiore. La biblioteca è la generosità
assoluta"[19]. La stessa che, in fondo,
sostiene i suoi poeti-spacciatori Ulises e Arturo, le sorelle Maria e Angelica
Fónt e perfino Quìm, il loro padre schizoide, la puttana innamorata Lupe e
tutti i personaggi chiamati a testimoniare di se stessi e, forse, anche
dell'impresa dei due detective sulle
tracce delle proprie origini[20].
Adesso, sapendolo e sentendola sulla nostra
pelle, questa generosità devastante, possiamo anche andare a ubriacarci. E il
primo bicchiere, con tenerezza, sarà oggi per Roberto Bolaño, cileno disperso,
a nostra immagine e somiglianza.
Leonardo Merlini
[1] Poeta cileno, al secolo Carlos Dìaz Loyola
(1894-1968)
[2]L’ultima conversazione, intervista con Mónica Maristain, in Roberto Bolaño, L’ultima conversazione, Sur edizioni
[3] Messico
e Nuvole, musica di Giorgio Conte e Michele Virano, testi di Vito
Pallavicini. Molti interpreti, ricordo Paolo Conte e Jannacci
[4] In Roberto Bolaño, Chiamate telefoniche, Adelphi
[5] In Jonathan Lethem, L’estasi
dell’influenza, Bompiani
[6] Nemico per i poeti realvisceralisti
del romanzo, Bolaño, per se stesso, rifiuta la dicitura
[7] Devo questa frase a Tullio Pericoli,
che la usava per descrivere la nascita della prima Linea, la cui storia è ora
contenuta, secondo l’artista, in tutte quelle venute dopo di lei
[8] Jean Baudrillard, E’ l’oggetto che vi pensa, Pagine d’Arte
[9] Il critico statunitense ha
pubblicato due celebri testi sull’argomento: L’angoscia dell’influenza e, successivamente, Anatomia dell’influenza. Utilissimo, per comprendere la postura di
Bloom, il saggio di Jorge Luis Borges Kafka
e i sui precursori, pubblicato in Altre
inquisizioni.
[10] Come scrive David Shields, la letteratura è uno
specchio che riflette una immagine che è la nostra, ma al tempo stesso non lo
è. Cfr. David Shields, How Literature
Saved my Life, Knopf
[11] Cfr. Enrico di Ofterdingen, devo la citazione a Claudio Magris e al suo
memorabile Itaca e oltre
[12] Filippo La Porta, Meno letteratura, per favore!, Bollati
Boringhieri
[13] In Jonathan Lethem, L’estasi
dell’influenza, Bompiani
[14] L’ultima
conversazione, intervista con Mónica Maristain, in Roberto Bolaño, L’ultima conversazione, Sur edizioni
[15] Per lo meno questo accade nella
mostra Cildo Meireles - Installations
all’Hangar Bicocca di Milano
[16] Walter Siti, Exit Strategy, Rizzoli
[17] Sul tema chiave della ferocia
letteraria cfr. Jonathan Franzen, Più
lontano ancora, Einaudi
[18] In Adelphiana 1963-2013
[19] La
letteratura non è fatta solo di parole, intervista con Héctor Soto e Matías
Bravo, in Roberto Bolaño, L’ultima
conversazione, Sur edizioni
[20] Origini che, nel piano rizomatico
dell’opera di Bolaño, naturalmente si chiariranno – sempre in forma ipotetica,
sia chiaro – in un altro libro, perché tutto è connesso e, in fondo, si scrive
sempre lo stesso libro
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