“Sparavamo
ai cani”. Si apre con tre parole, già capaci di creare un’atmosfera di
inquietudine, la raccolta di racconti Fine
missione di Phil Klay, 32enne scrittore statunitense che con questo suo
primo libro ha vinto il National Book Award 2014. Un premio
che, leggendo le storie che raccontano, forse davvero per la prima volta, gli
ultimi anni della guerra in Iraq, appare quasi un naturale coronamento di un
lavoro letterario che sa unire la precisione carveriana nella gestione della
misura della short-story a
un’indagine sul tema dell’umano – perché di questo si tratta – capace di
raggiungere, senza morbosità né eccessi spettacolari, profondità sconvolgenti. Al punto da lasciare disorientato il
lettore, che esce dalla pagina di Klay con la sensazione di avere ammirato
un’opera d’arte e, al tempo stesso, di essersi completamente persi all’interno
di un mondo che, ingenuamente, credevamo di conoscere.
Ufficiale
dei Marine, Klay ha servito in Iraq come capitano, nella provincia di Anbar,
tra il gennaio del 2007 e il febbraio del 2008, in un momento molto
difficile per le truppe statunitensi, prima di congedarsi nel 2009 e quindi
conseguire un Master in scrittura creativa. E la mano tecnica, nella sua
pagina, si nota, è, militarmente verrebbe da dire, dichiarata. Ma ciò non basta
a fare di storie come Il denaro come
sistema di armamento o Preghiera
nella fornace quegli oggetti
letterari primordiali che nei fatti sono. La scrittura di Phil Klay, che in
Italia è pubblicato da Einaudi, induce a domande sul senso della stessa
letteratura o su che cosa significhi realmente trovarsi in guerra. Domande che,
necessariamente, ammettono solo risposte parziali, quando non completamente
oscure, e alle quali Klay non vuole
fornire alcun tipo di soluzione, se non quella, preziosissima nella sua
fragilità, della creazione artistica in se stessa. “In realtà – dice a un certo
punto un personaggio – in Iraq è successo quello che è successo, niente di
più”. Una frase solo apparentemente scontata, ma che cela l’abisso di orrore –
parola intorno a cui ruota, tanto per fare un paragone che indica qual è
l’ambito qualitativo in cui ci si sta muovendo, la follia di Kurtz in Cuore di tenebra di Joseph Conrad – rappresentato dallo stare in
mezzo a una cosa di fatto indicibile nella sua totalità, ossia la violenza che
porta con sé l’ombra, purtroppo non bergmaniana ma semplicemente brutale e
biologica, della morte.
Morte che
viene celata, più che sotto la retorica, che nei racconti di Klay non compare
quasi mai, nemmeno dove ce la aspetteremmo, ricorrendo a un gergo anestetico per acronimi che trasforma
i morti in azione in KIA, gli ordigni nascosti sulle strade in IED, le squadre di
artificieri in EOD e via di seguito. Un gergo che Klay usa con raggelante
indifferenza artistica, arrivando a comporre il racconto OIF, ossia Operation Iraqi Freedom, quasi
utilizzando solo queste sigle aliene. La vita umana passa nella distinzione tra
i KIA e i WIA (feriti in azione, ma sopravvissuti), ma anche nella disturbante
consapevolezza “che KIA significa che loro hanno dato tutto. WIA significa che
io invece no”.
Che cosa
sappiamo davvero di noi stessi. Potrebbe essere questo il motivo per il quale
queste short-story glaciali e lontanissime interrogano
ciascuno di noi anche a migliaia di chilometri dall’Iraq in tono incalzante e
avvolgente. Perché, come dice il Marine del primo racconto che dà il titolo
alla raccolta prima di sparare al suo cane malato terminale, bisogna
concentrarsi “sulla tacca di mira, non sul bersaglio. Il bersaglio deve essere
sfocato”. In questa sfocatura di
fronte al mondo si muove la grande letteratura, da sempre. Un movimento di cui
oggi Phil Klay fa legittimamente e spaventosamente parte.
Nessun commento:
Posta un commento