Missiroli, il mainstream e un’idea di letteratura
“Non incoraggiate il romanzo” diceva qualche anno fa Alfonso Berardinelli in una delle sue ricognizioni sullo stato delle lettere italiane. Ricordo, all’epoca, di avere provato un moto di fastidio verso il critico, verso questa esortazione che andava contro le mie aspirazioni di lettore (e, probabilmente, anche di scrittore mancato - leggete pure “frustrato” -, almeno nella mia personalissima autoproiezione). Quello che speravo era che il romanzo venisse incoraggiato, che trovasse una sua nuova dimensione nello spazio pubblico, che prendesse forme aggiornate al tempo presente, non solo della lingua. È successo, per fortuna; lo hanno fatto, per esempio, Emmanuel Carrère o Ben Lerner. In qualche modo lo ha fatto anche Franzen con Purity, forse l’esempio più clamoroso di come un autore complesso (e piuttosto snob) possa arrivare a scrivere un romanzo popolare senza perdere la propria identità.
Berardinelli, però, parlava dell’Italia. E qui, insomma, sta il (mio) problema. Ma serve andare con ordine.
2.
La copertina è intrigante e artistica. La citazione in esergo ai comunicati stampa (“Che parola sbagliata, amante. Che parola sbagliata, tradimento”) è perfetta, anche nel magnifico uso della virgola, una di quelle arti di cui non se ne ha mai abbastanza. L’editore (Einaudi) e la collana (i Supercoralli) sono praticamente il meglio per qualunque lettore nostrano che si definisca “sofisticato”, seppur magari a bassa voce, sperando che gli altri non lo sentano, quel gorgoglio di autocompiacimento. Fedeltà di Marco Missiroli è il romanzo italiano del momento, un oggetto letterario che vuole ampliare il terreno del mainstream: insomma ci si aspetta che piaccia al bel mondo del sistema editoriale patrio e che pure venda bene. Poi arriverà il Principale Premio Letterario e la fascetta rossa per la quinta edizione e, come in ogni premiazione che si rispetti, un inserviente proveniente dal Subcontinente indiano sparerà coriandoli iridescenti che ricadranno festosi sugli uomini longilinei e le signore eleganti che danzano, mentre lo Scrittore sorseggia il suo liquore paglierino con lo sguardo confuso e felice davanti alle telecamere della Grande Televisione Nazionale. Che cosa si può volere di più. “Preparatevi a leggere la vostra storia”, ribadisce la quarta di copertina digitale del romanzo. E il punto è che la cosa è davvero così. Ma il problema è in che modo ce la racconta. Il problema, potrebbe dire una specie di Savonarola del Sistema Letterario, è a quale prezzo.
3.
Sono anni che ripeto, ormai come un disco rotto e senza troppa originalità, che la buona letteratura, così come l’arte in generale, ha lo straordinario potere di creare dei mondi più “veri” del cosiddetto “mondo reale”. In questa nuova dimensione della “verità” capita spesso di trovare frasi che ci appaiono scritte, come accadeva con la foresta del Barone rampante di Italo Calvino, solo perché io lettore ci potessi passare davanti, accorgendomi che, per quanto strana sia la trama, quel libro sta parlando esattamente di me (di te, di noi, di voi, quello che vi piace di più, come pronome). Questo riconoscimento “da lontano” è il punto chiave: qui scatta qualcosa di, perdonate la prosopopea, universale. Qui si attiva il dispositivo artistico, è un click che cambia le carte in tavola e sposta la sfida a un livello più alto. E lo fa con metodi imprevisti, mettendoci in difficoltà, disturbando la nostra quiete pubblica, perché normalmente ci costringe a vedere nero su bianco sensazioni che erano sempre rimaste nel privato; dentro, non fuori. Opzioni segrete e personalissime.
Di primo acchito Fedeltà sembra fare esattamente la stessa cosa, sul terreno di quell’idea di avventura che, anche grazie alla persona di Monica Vitti, è diventata una sorta di spinoso luogo dello spirito. Il romanzo di Missiroli si legge, attrae, a volte perfino abbraccia chi sta dall'altro lato della pagina. Lo riconosciamo, ci è noto. A volte sembra un’esplosione, una specie di tempesta perfetta. Tutto bene, allora? Eh, forse non proprio.
4.
“Leggere bene - ha scritto il critico George Steiner - significa correre grossi rischi. Significa rendere vulnerabile la nostra identità, il nostro autocontrollo”. Roberto Calasso, nel suo incredibile e indefinibile libro L’innominabile attuale, parla della digitalizzazione come di un’operazione che sposta il focus dalla coscienza (un tempo luogo del “continuo”, quindi dell’universale, dell’assoluto) all’informazione (luogo del “discreto”, del definito, del circoscritto) e in questo modo punta a “smussare ogni residuo tragico dell’esistenza”.
Sono due giganti, Steiner e Calasso, è vero, ed è praticamente impossibile per chiunque essere messo a confronto con loro. Lo so. Ma ciò non significa che non si debba provare comunque, non significa che basti scrivere di un argomento rischioso, come quello che si suole chiamare “tradimento” - peraltro sottocategoria di un’altra parola difficile come “amore” - per mettersi realmente in gioco. La sensazione, leggendo Missiroli (che è e resta comunque iscritto nella colonna di quelli “bravi” sulla scena italiana), è che la sua letteratura non pensi se stessa, si limiti a esistere, si limiti a battere un terreno impervio, ma senza avere assunto dentro di sé questa impervietà. Prima si parlava del riconoscimento “da lontano”, che genera universali, in Fedeltà tutto è troppo, troppo vicino invece.
Mi spiego: Fedeltà si apre con una citazione di Philip Roth (“Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando”), ma basta prendere una qualsiasi pagina de Il teatro di Sabbath per rendersi conto che il campo di gioco su cui ha scelto di stare Missiroli (ripeto, ha scelto) non è quello di Roth, perché nella storia di Mickey Sabbath ogni passo, ogni respiro, avviene su un terreno ignoto, con una densità tragica e grottesca che scaturisce dallo stesso modo di essere (e quindi, perdonate la ridondanza, ma è fondamentale, del pensarsi) del personaggio. Un antieroe che non ha nessuna intenzione di cambiare il proprio stile di vita, ma che al tempo stesso sa benissimo che la sua è solo e sempre una danza con la morte, niente altro. Lasciamo pure perdere le pagine di assoluta visionarietà che il Grande Realista Roth ha disseminato qua e là, sono fuori concorso, ma anche limitandosi alla semplice gestione ordinaria, per così dire, del romanzo, tutto è pervaso da un’idea di grandezza implacabile, anche nella dissolutezza, che è la cifra di come il libro abbia pensato se stesso, costantemente. Senza indulgenze e senza ammiccamenti, avventurandosi, come consiglia Calasso, sempre, pervicacemente, attraverso un terreno ignoto.
Fedeltà, invece, innesca, come si diceva, una sorta di esplosione, ma è una esplosione controllata (“sembra un’esplosione”). La trama ha snodi problematici e solleva dilemmi forti, ma sono problemi e dilemmi che restano pienamente e totalmente riconoscibili, non c’è traccia di ignoto, tutto è riconducibile a noi stessi, cui resta l’ebbrezza di un’avventura fuori dal terreno del lecito, senza però in nessun modo sporcarsi le mani. Non c’è rischio, in questa lettura, caro il professor Steiner, non c’è la ricerca di qualcosa di realmente nuovo. “La vostra vita a voi”, diceva il pastore errante di Leopardi: restituircela è quello che il romanzo di Missiroli prova a fare, senza però mai andare un passo oltre. E la sensazione che resta è quella di avere assistito a uno spettacolo, per l’amor del cielo: accattivante e fruibile senza dubbio, ma nel quale si è voluto tenere lontano l’abisso vero (abisso che è anche grottesco) che la storia messa in campo avrebbe potuto evocare. Come se fossimo alla serata finale del Festival di Sanremo, come se vivessimo sempre su Rai Uno, dove tutto deve essere sì un po' pruriginoso, ma dovutamente rassicurante e plastificato, alla fine. Adelante, con juicio, Pedro.
Invece io credo che da un romanzo, come ci hanno insegnato Cervantes o Flaubert, sia lecito e, aggiungo, doveroso sperare in qualcosa di più. Perché altrimenti dopo la bevuta resta solo un vuoto a rendere.
5.
Il problema, inutile fare finta di nulla, è comune a tanti degli scrittori italiani più letti e premiati. Come se solo nella sfera del noir (che i benpensanti continuano a guardare alzando entrambe le sopracciglia, quindi posto comunque al di fuori della “ letteratura” ufficiale, con poche sceltissime eccezioni) fosse concesso scavare a fondo nell’umano e nelle sue sfaccettature oscure. Come se fosse indispensabile utilizzare situazioni violente per giustificare una scrittura tecnicamente violenta o, meglio, feroce: questo è il mio problema con la letteratura italiana (anche qui ci sono eccezioni, naturalmente, ma sono per vari motivi ai margini della Grande Corrente), l’assoluta sordità che risuona quando pongo la domanda sulla scrittura che pensa se stessa come quell’ascia per scavare dentro il ghiaccio dello scrittore, per citare Kafka, e che come ascia deve comportarsi anche nei confronti del lettore, soprattutto quando parla del consueto, del quotidiano, delle tenerezze. Rendere sconosciuto l’ordinario e conosciuto lo straordinario: questo mi hanno risposto molti artisti quando ho chiesto loro a che cosa servisse l’arte. Questo credo sia anche uno degli obiettivi della letteratura che crede in se stessa in quanto letteratura. Se non ci riesce un Marco Missiroli, e qualche caduta (però gestita e superata) in questo senso l’ha avuta anche una altro scrittore di certo valore come Marco Rossari, vuol dire che farlo in Italia sul terreno più classico del romanzo è davvero difficile. (Non parlo del caso Elena Ferrante, perché questa è ancora un’altra storia, che ha a che fare con la saga e, comunque, non è l’oggetto di questa riflessione).
Per fortuna, però, questo è anche un Paese eclettico, che ha partorito grandissimi scrittori di testi poco incasellabili (di Calvino si è già detto, ma pensate alla triade Morselli-Manganelli-Flaiano, per esempio) e, forse anche per colpa dell’eredità del Colosso Manzoniano, la cultura del romanzo ha vissuto un Novecento non facilissimo, puntellato però di varianti eterodosse (Gadda-Pasolini-Arbasino?), la cui eco si sente ancora e si manifesta in Walter Siti, in Nicola Lagioia, in Teresa Ciabatti, in Chiara Valerio, in Gianluigi Ricuperati, in Letizia Muratori, a volte in Giuseppe Genna. Il romanzo italiano sta lì, dove sembrava non ci fosse, dove la scrittura si libera quasi sempre del resto, dove il coltello viene usato per lunghi tratti come tale. Un’ascia che ha il coraggio dell’osceno, nel senso di ciò che è fuori dalla scena, celato, temuto, ma fatto letteratura. Pensate a Troppi Paradisi di Siti, solo per citare un titolo.
Da queste parti il Festival di Sanremo è un soggetto di cui si può scrivere, ma non è la forma mentis della scrittura stessa.
6.
Chiaramente tutto quanto scritto finora deve fare i conti con il tema del mainstream, e con l’idea sacrosanta che i libri sono anche intrattenimento (e sono oggetti che stanno sul mercato). Credo che Missiroli abbia voluto sinceramente scrivere un romanzo che potesse unire la popolarità e la qualità. In parte ci è riuscito, ma mi rimane il dubbio, di nuovo, che l’elemento che non mi torna stia a monte, ossia nel modo in cui lo scrittore, o per meglio dire, il libro, per comprendere tutta la filiera che alla fine partorisce l’oggetto che infine arriva sullo scaffale delle librerie, ha stabilito come essere popolare, il modo in cui ha pensato il proprio essere mainstream. La mia personale sensazione è che sia stata una scelta al ribasso, un conformarsi al già digerito, un ritenere sostanzialmente necessario non cambiare la cornice di riferimento, cercando di farci entrare un oggetto letterario che, di suo, non ci sarebbe dovuto stare lì dentro. Insomma, anziché allargare la cornice, ha rimpicciolito il quadro, le sue potenzialità e le sue ambizioni. E questo è un peccato strategico, che rispecchia un modo di fare editoria sul quale potremmo a lungo discutere.
Il mainstream è, senza dubbio, la sfida culturale del nostro presente, ed è anche una grande occasione da tanti punti di vista. La torre d’avorio, ci piaccia o no, è stata distrutta da un pezzo, sebbene ci sia sempre qualche negazionista proattivo. Ma che cosa possiamo creare al suo posto? Come possiamo portare la letteratura dentro la società, dentro la testa delle persone? Come dice Calasso il presente è diventato “innominabile”: potrebbe essere una mutazione irreversibile, ma forse anche l’occasione per trovare un modo nuovo (e lo stesso Calasso lo fa, come dimostra il libro che di questo tema ragiona) per dire e scrivere il nostro tempo.
Senza fedeltà se non alla letteratura.
Leonardo Merlini
© Kilgore Magazine
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