Caro Marco,
Quando mi sono messo a pensare a Cèline e alla sua sinistra grandezza di scrittore di destra e antisemita, mi è subito venuto in mente un altro libro, scritto da un ebreo, un classico e probabilmente uno dei più importanti libri di storia che io abbia letto: La strana disfatta di Marc Bloch. Nel suo ricostruire, nelle vesti di “vinto” e “testimone”, la repentina caduta della Francia nel 1940, lo storico accusava senza mezzi termini lo Stato maggiore, i comandanti militari: capaci di sbagliare praticamente tutte le mosse (una situazione che, divago, possiamo capire bene oggi durante la gestione dell’emergenza Covid…). La testimonianza di Bloch è diretta, documentata, non ideologica, ma molto precisa. Poi però arriva il capitolo terzo del libro: Esame di coscienza di un francese. Ecco, a quel punto il discorso si allarga e le responsabilità, si vede, coinvolgono tutta la società, in modi diversi, ma diffusi. Siamo tutti colpevoli in varia misura, dice Bloch a se stesso e a noi, è colpevole il nostro modo di avere vissuto la società. La sua scrittura è così precisa e misurata da fare sentire responsabili anche noi, oggi, perché le dinamiche alla base della strana disfatta francese sono in un certo senso universali e lo storico, in quelle pagine, fa una sua forma di letteratura.
Sembra un pistolotto inutile, ma il punto a cui volevo arrivare è che Céline sta dentro la società che è arrivata a quel punto, sta dentro la Terza Repubblica, un esperimento politico in fondo fragile come Weimar, ma durato molto di più, cementato anche dall’idea del Fronte Popolare di Léon Blum, che per molta sinistra è stato a lungo un mito. Ma un mito che ha partorito un fallimento, venuto dopo decenni di giochi politici di secondo piano, insomma una grigissima medietà, probabilmente doverosa come reazione a due avventure bonapartiste finite come sappiamo (e la sconfitta di Sedan del 1870 è stata terribile come lo sarà quella del 1940), ma comunque medietà. La letteratura francese sta uscendo dalla grande stagione del Naturalismo e non trova un altro filone dominante, un’altra narrazione di se stessa, diremmo oggi. La sinistra difende un esistente che non ha più attrattive, la cultura ufficiale ci si appiattisce sopra, e al genio letterario puro, grezzo, non compromissorio come è quello di Cèline resta solo il rifugio nella follia dei suoi libri e in una insofferenza estrema verso quel mondo. Come tutti i pensatori di destra crede nella necessità di una catarsi (spesso violenta), che ha lo scopo di spazzare via quel grigiore infinito, nemico di ogni grande scrittura. Ma, e qui io colloco, per rispondere alla tua domanda, la sua grandezza “di destra”, senza che la catarsi implichi una redenzione. Non c’è nessuna redenzione, non è nemmeno pensabile la redenzione nel mondo di Bardamu nel Viaggio al termine della notte, anzi, non termina nemmeno la notte, mai. Perché un’Europa che ha fatto quello che ha fatto in Africa, per esempio, rende impossibile anche la sola idea di redenzione. E sul Colonialismo, è amaro dirlo da progressisti, ma temo sia così, sono stati i conservatori, per non dire i reazionari, a dare le analisi più spietate, pensiamo al Congo di Joseph Conrad… solo una profonda mancanza di slanci ideali progressivi ha permesso di guardare con spaventosa lucidità a quello che succedeva nelle colonie, al modo mostruoso in cui l’essere umano occidentale ha trasformato se stesso… per questo, come accade a Kurtz in Cuore di tenebra, l’unica strada resta la follia. “L’orrore, l’orrore”, ripete anche Marlon Brando in Apocalypse Now.
E dunque la follia è il terreno di coltura del genio di Céline, la sua arma contro tutto e tutti, credo che il suo essere di destra o antisemita (non giustifico, provo a immaginare) nasca innanzitutto come una reazione a un mondo, che era la Francia nel suo caso, che appariva del tutto inadeguato a contenere la sua letteratura, un mondo così compreso nell’aggiustare, nel giustificare, nello smorzare da dovergli apparire del tutto e totalmente insopportabile (così come in Italia appariva insopportabile Giolitti, insomma), ma in Francia il senso della grandeur appartiene anche a chi contesta, e così, per fortuna, Céline ha scelto di non porre limiti alla sua scrittura, se non la scrittura stessa. In quel mondo era di destra essere assoluti, rifiutare i compromessi e pagare il prezzo di tutto ciò. Era di destra usare la letteratura al massimo della propria crudeltà (nel senso tecnico, crudeltà della scrittura, non solo dei fatti raccontati, e per questo non credo che Houellebecq stia su questo piano), era di destra rinunciare a una moralità, cioè essere amorale, come la ricerca della perfezione letteraria richiede quasi sempre. È come se non ci fosse mai stata alcuna alternativa, perché lo scrittore non voleva compromessi (e infatti ha ricoperto di insulti fino alla fine l’editore Gallimard che pure lo ha portato nell’Olimpo della cultura francese), neppure quando avrebbero potuto fargli comodo.
Non so se tutte le perle letterarie transalpine sono venute da questo humus di destra, che è lo stesso che porta le banlieu a votare per il Fronte Nazionale, ma con frequenze più basse e istinti che guardano alla sopravvivenza e a un’idea di appartenenza, mentre un Céline guardava prima di tutto all’estrema follia dell’estrema scrittura. So però che c’era in lui una libertà radicale che agli scrittori più integrati (anche e forse soprattutto nella grande stagione degli Anni Sessanta) non era concessa per via della militanza o cose simili. C’era in lui un’ossessione che ricorda quella degli scrittori nazisti di Bolaño, e che, unita al suo talento assoluto, ha portato ai risultati che leggiamo ancora oggi. Che sono risultati sporchi, brutti e cattivi, ma in un universo amorale e “puro”, come era il suo, devoto alla purezza della scrittura e solo a quella, questi sono aggettivi che perdono di senso. Forse il cinema del primo Godard potrebbe essere in qualche modo un paragone sensato, ma questo non è davvero il mio campo.
Non so se ho risposto alla tua domanda, ma in ogni caso ti abbraccio
Leo
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