Lo so. La finale dei Mondiali di calcio non c’entra (quasi) nulla con Kilgore Magazine. Però più si avvicina il fischio d’inizio di questa inattesa sfida tra l’Italia e i cugini transalpini, più sento crescere il fascino della partitissima. E mi rendo conto che non si tratta solo di una tenzone pallonara, ma di un fenomeno più vasto, che ha – in qualche modo, e per certi versi in maniera sorprendente – a che fare con il vasto e sfuggente concetto di cultura. Forte di questo assunto, sfacciatamente autoreferenziale, autorizzo i Mondiali a risedere a pieno titolo sulle pagine di Kilgore.
Personalmente questa è la terza finalissima degli Azzurri che vivo da spettatore protagonista – in totale è la nona, comprese due vissute in maniera incosciente per motivi anagrafici – e, scavando nei ricordi, trovo immagini straordinarie. L’11 luglio 1982, IL giorno per eccellenza del calcio italiano, sedevo in una sala sovraffollata ai bagni “Tropical” di Grottammare insieme a tutta la mia famiglia, ai miei ammiratissimi e inarrivabili cugini e a un numero imprecisato di altri clienti tra i quali un corposo gruppo di amici della Svizzera italiana. Ricordo il caldo, l’odore di pesce fritto, le sedie davanti al piccolo televisore. Ricordo di essermi sistemato nelle prime file, ma poi ho anche un’immagine della sala ripresa dal fondo, con la massa della gente che oscillava e gridava, probabilmente verso la fine della trionfale partita. Ricordo le ironie di chi, tra gli svizzeri, tifava Germania (lo stesso signore poi finì in manette negli anni di Tangentopoli – è vero! – ma questa è un’altra storia) e l’ultima inquadratura della Rai sullo stadio Santiago Bernabeu.
Sono tornato, vent’anni esatti più tardi, nello stesso ristorante. Cosa volete che vi dica, era cambiato, ma gli elementi fondamentali erano gli stessi. E con uno dei miei cugini, e rispettive signore, abbiamo mangiato seduti più o meno proprio in fondo alla sala dove abbiamo visto Dinone Zoff alzare la coppa. Non so cosa abbia pensato lui, io avvertivo una sottile inquietudine figlia del mio cattivo rapporto con il passato. Che ho provato a esorcizzare studiando la storia, devo confessare senza grande successo. Comunque, nel delirio di un post che mi esce dalla tastiera privo di ogni struttura, eccomi a dire che quella finale, LA finale, vissuta in una notte quasi lisergica nelle Marche dei primi anni Ottanta si è attaccata alle pareti di quella stanza ed è rimasta lì, e a me, come a Borges che scopre l’Aleph sui gradini di una casa di Buenos Aires, è capitato di ritrovarla.
Domani sera, quando l’arbitro fischierà l’inizio della partita, quando il Paese smetterà di respirare per un’ora e mezza, quando saremo quasi tutti ipnotizzati davanti all’idea meravigliosa di una FINALE, piuttosto che davanti a un evento puramente sportivo, io sarò tra quelli che sentiranno nella pelle d’oca che sale dai piedi fino ai capelli qualcosa di più del tifo per la nazionale. Perché dentro a certe partite passa anche la nostra vita, e talvolta l’evento sportivo è un occasione per riappropriarcene e permetterci di piantare un paletto. Che vent’anni dopo potremmo forse ritrovare sotto la sabbia.
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