“Quando pensi a un racconto ti concentri necessariamente su uno spazio e su un tempo limitato, non costruisci un quadro troppo vasto, ma punti i riflettori su un momento particolare, sul momento di una crisi”. Charles D’Ambrosio, scrittore americano che debutta in Italia con la raccolta di racconti “Il museo dei pesci morti” edita da Minimim Fax, spiega così come nasce una short-story e, al tempo stesso, fornisce una chiave di lettura per i suoi lavori che parlano di persone con problemi mentali, che vivono ai margini dello scintillio dello star system, che attraversano con sguardo attonito i panorami vastissimi dell’America. E che, soprattutto, raccontano di uomini e donne che sembrano sempre sul punto di vivere una profonda crisi. La stessa che sembra attraversare anche la società statunitense: “I miei personaggi – mi ha spiegato D’Ambrosio, a Milano per incontrare il pubblico italiano nella libreria di charme ‘Sulla Strada’ – rappresentano degli aspetti dell’America, sono coinvolti nel panorama americano e hanno problemi che riguardano tutta la nostra società”.
Nato a Seattle e ora residente a Portland nell’Oregon, D’Ambrosio ha scritto finora due libri di racconti e una raccolta di saggi. Inevitabile il paragone con Raymond Carver, il grande scrittore che ha rilanciato la forma del racconto una trentina d’anno dopo i fasti di Ernest Hemingway. Con voce profonda e gentile D’Ambrosio ha ricostruito il quadro di quel periodo, in cui la short-story ha conosciuto in America una vera e propria rinascita: “Carver ha scritto solo racconti e ha pubblicato grandi raccolte in un breve lasso di tempo. Sulla sua scia sono usciti diversi libri di racconti – come quelli di Richard Ford o Tobias Wolff – che piacevano molto e avevano molto mercato. Negli Stati Uniti è il mercato che detta le leggi e oggi quella stagione è finita, i racconti non si vendono più”.
Se le vendite possono essere un problema, la critica ha invece accolto con grande favore i libri di D’Ambrosio, apprezzato da colleghi autorevoli come Michael Chabon e da esordienti di grido come la bella Marisha Pessl (come mi ha confidato lei stessa, che ho intervistato qualche settimana fa). Nei suoi racconti, che hanno il dono di raccogliere in poche pagine grandi temi, come la malattia, il rapporto padri-figli, la violenza domestica, si sente il lavoro oscuro dello scrittore (il famoso “iceberg” di Hemingway”) che riesce a selezionare l’essenzialità pur partendo da una vastissima base di sentimenti, nozioni, implicazioni sociali e morali. “Sono le storie che scrivo – ha spiegato D’Ambrosio – che mi dicono, andando avanti pagina dopo pagina, cosa fare e dove andare e con il mio linguaggio cerco di dare un contributo alla verità, perché il linguaggio è molto democratico, o almeno dovrebbe esserlo”.
Ne “Il museo dei pesci morti” c’è un bellissimo racconto – “Drummond e figlio” – nel quale D’Ambrosio racconta del rapporto tra un riparatore di vecchie macchine da scrivere e il suo problematico figlio. Tra dialoghi disarticolati, esplosioni di misticismo e piccole costanti attenzioni, la storia arriva al punto in cui il padre, apparentemente senza motivo, dice al ragazzo “Ti voglio bene”. “Una frase di questo tipo – ha spiegato D’Ambrosio – è molto difficile da dire tra due uomini, soprattutto in America. E per arrivare a quella frase ho dovuto costruire una giornata intera intorno a questo momento, creare le condizioni e le circostanze che giustifichino quell’ultima riga”. Spesso le conclusioni dei racconti di D’Ambrosio sono immagini che, dopo pagine che hanno indagato senza indulgenza nelle miserie umane, lasciano un senso si sollievo, di speranza. “Io credo nella speranza – ha detto lo scrittore – anche quando è inutile, c’è sempre qualcosa di buono”.
Un altro dei temi che ritornano con frequenza nelle storie di D’Ambrosio è la religione, spesso descritta come ossessione molto vicina al delirio. “Stiamo andando verso un periodo di follia religiosa – ha detto D’Ambrosio” – che coinvolge direttamente non solo il Medio Oriente ma anche gli Stati Uniti, dove abbiamo un presidente fondamentalista. Il fondamentalismo non è religione, ma aberrazione. E’ una perversione delle possibilità della religione. Il XX secolo ha visto la maggior parte delle stragi compiute da gente che voleva eliminare la religione, ora ci troviamo a fronteggiare il problema opposto, con gente che ha bisogno di fede e finisce con il rispondere a questo bisogno abbracciando una fede corrotta, fondamentalista”.
In un celebre passo de “La Peste” di Albert Camus il protagonista, il dottor Bernard Rieux, dice che “la peste si combatte con l’onestà”. Martina Testa, traduttrice e curatrice dell’edizione italiana del libro di D’Ambrosio, ha scritto che proprio l’onestà è ciò che più l’ha colpita nell’opera dello scrittore di Seattle. Forse un piccolo contributo alla lotta contro le numerose piaghe che affliggono il nostro presente può in qualche modo venire anche dai racconti di Charles D’Ambrosio.
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