Mi ha insegnato a guardare all’Africa e mi ha accompagnato, con i suoi libri, il giorno in cui ho deciso di viaggiare in quel continente. Solo per questo gli dovrei essere molto grato. Lui è Ryszard Kapuscinski, giornalista, scrittore e viaggiatore instancabile, morto ieri notte a 74 anni. Kilgore ha amato le pagine africane di “Ebano” e quelle siberiane di “Imperium”, ha conosciuto l’Iran grazie a “Shah-in-Shah” e ha guardato con altri occhi alla professione giornalistica dopo aver letto “Autoritratto di un reporter”. Il suo ultimo libro organico, “In viaggio con Erodoto”, è stato come un ritorno a casa per chi, come me, è cresciuto a pane e storia. Inutile negarlo: senza Kapuscinski non sarà più la stessa cosa.
Per quel che vale anch’io voglio ricordare un giornalista che andava a piedi e stava sempre dalla parte dei deboli e dei dimenticati. Credo che questo da solo basti a farne un laicissimo eroe dei nostri tempi. A me resta l’onore di avere recensito i suoi due ultimi libri, anche se il rimpianto per non averlo conosciuto di persona è grande. Arrivederci Ryszard.
24 gennaio 2007
23 gennaio 2007
Il fantasma di RFK e quello del cinema
Una ferita ancora aperta, una storia di quasi 40 anni fa che però ci parla di oggi, un racconto corale che si ispira ad Altman e che persegue anche un evidente intento politico. Il film “Bobby” di Emilio Estevez – sceneggiatore, regista e attore – è una grande ed appassionata elegia della figura e dell’azione politica di Robert Francis Kennedy, il fratello minore di JFK, ucciso in una frenetica notte losangelina nel momento in cui sembrava destinato a ripercorrere i passi del fratello verso la Casa Bianca. Un’altra favola politica interrotta che una parte dell’America non riesce a dimenticare e che il film di Estevez trasforma, pur con ottime intenzioni, in un’agiografia. Genere che, quando si parla di politica, è sempre un po’ pericoloso.
A voler essere crudi si potrebbe scrivere che “Bobby” è, in ultima analisi, un polpettone retorico. Il giudizio ci sta, ma se si guarda più a fondo si scopre che, sotto la noia della prima parte e dietro la visione quasi messianica di RFK (che appare solo nelle vere immagini di repertorio, come una divinità che non è lecito ritrarre), ardono alcune braci interessanti: dai bei personaggi femminili di Sharon Stone, Ellen Hunt e Demi Moore - gli unici caratteri veramente complessi del film – all’idea del regista di costruire un intreccio polifonico che troverà un punto comune nel momento degli spari di Shiran Shiran. Bene anche l’unità di luogo, l’Hotel Ambassador, che ricorda i dettami del teatro classico, mentre quella di tempo – ufficialmente presente - viene rotta dai discorsi del senatore e dalle immagini dell’epoca.
Ma poi vengono i dubbi. Dagli smaccati, e un po’ poco originali, parallelismi tra il Vietnam e l’Iraq all’eccesso di zucchero di certi personaggi e certe scene, dall’edulcorazione dei conflitti razziali alla banalizzazione dei sentimenti. Ma soprattutto a Kilgore gira per la testa una strana sensazione: “Bobby” è un film, ma forse non è cinema. Provo a spiegarmi: l’obiettivo della pellicola va oltre la creazione artistica, e questo ci può stare, ma le emozioni che si provano in sala (e a volte sono intense) non nascono dalla sceneggiatura o dalle inquadrature o dall’interpretazione degli attori bensì dalla Storia, quella che si studia a scuola, dai discorsi veri di Robert Kennedy, dal destino tragico che lo ha colpito.
Pensate a un altro film di grande successo e costruito con una certa coralità di personaggi, “Schindler’s List” di Steven Spielberg: è ovvio che anche in quel caso era la Storia a dare tragicità al racconto filmico, ma le emozioni nascevano anche dalle scelte del regista su come raccontare l’Olocausto. La drammaticità stava nel ruolo ambiguo del nazista Amon Goett-Ralph Fiennes, nella scelta di mettere una sola macchia di colore, nella tutt’altro che santificabile personalità dello Schindler di Liam Neeson. Tutte scelte del regista, tutte implicazioni cinematografiche. In “Bobby” invece tutta l’emozione viene convogliata sul senatore Kennedy e le storie dei vari personaggi più o meno anonimi, che pure “sono” il film, sembrano scomparire accanto a lui, che pure non è impersonato da nessun attore, e anche questo, a ben guardare, allontana il film dal cinema.
Resta l’emozione umana e, se la si condivide, quella politica. Resta la commozione e il senso di smarrimento di fronte alla violenza. Resta la sensazione che se il Vietnam nasconde l’Iraq la morte di Bobby ci parli di una tragedia collettiva a noi più vicina, come l’11 settembre. Resta il dubbio su ciò che sarebbe potuto succedere se RFK avesse davvero corso contro Nixon per la presidenza degli Stati Uniti. Ma, come vedete, resta poco di cinematografico. A parte la sensazione che troppi divi forse possano soffocare un film, come succede nel caso di Anthony Hopkins, che ormai può solo interpretare se stesso.
A voler essere crudi si potrebbe scrivere che “Bobby” è, in ultima analisi, un polpettone retorico. Il giudizio ci sta, ma se si guarda più a fondo si scopre che, sotto la noia della prima parte e dietro la visione quasi messianica di RFK (che appare solo nelle vere immagini di repertorio, come una divinità che non è lecito ritrarre), ardono alcune braci interessanti: dai bei personaggi femminili di Sharon Stone, Ellen Hunt e Demi Moore - gli unici caratteri veramente complessi del film – all’idea del regista di costruire un intreccio polifonico che troverà un punto comune nel momento degli spari di Shiran Shiran. Bene anche l’unità di luogo, l’Hotel Ambassador, che ricorda i dettami del teatro classico, mentre quella di tempo – ufficialmente presente - viene rotta dai discorsi del senatore e dalle immagini dell’epoca.
Ma poi vengono i dubbi. Dagli smaccati, e un po’ poco originali, parallelismi tra il Vietnam e l’Iraq all’eccesso di zucchero di certi personaggi e certe scene, dall’edulcorazione dei conflitti razziali alla banalizzazione dei sentimenti. Ma soprattutto a Kilgore gira per la testa una strana sensazione: “Bobby” è un film, ma forse non è cinema. Provo a spiegarmi: l’obiettivo della pellicola va oltre la creazione artistica, e questo ci può stare, ma le emozioni che si provano in sala (e a volte sono intense) non nascono dalla sceneggiatura o dalle inquadrature o dall’interpretazione degli attori bensì dalla Storia, quella che si studia a scuola, dai discorsi veri di Robert Kennedy, dal destino tragico che lo ha colpito.
Pensate a un altro film di grande successo e costruito con una certa coralità di personaggi, “Schindler’s List” di Steven Spielberg: è ovvio che anche in quel caso era la Storia a dare tragicità al racconto filmico, ma le emozioni nascevano anche dalle scelte del regista su come raccontare l’Olocausto. La drammaticità stava nel ruolo ambiguo del nazista Amon Goett-Ralph Fiennes, nella scelta di mettere una sola macchia di colore, nella tutt’altro che santificabile personalità dello Schindler di Liam Neeson. Tutte scelte del regista, tutte implicazioni cinematografiche. In “Bobby” invece tutta l’emozione viene convogliata sul senatore Kennedy e le storie dei vari personaggi più o meno anonimi, che pure “sono” il film, sembrano scomparire accanto a lui, che pure non è impersonato da nessun attore, e anche questo, a ben guardare, allontana il film dal cinema.
Resta l’emozione umana e, se la si condivide, quella politica. Resta la commozione e il senso di smarrimento di fronte alla violenza. Resta la sensazione che se il Vietnam nasconde l’Iraq la morte di Bobby ci parli di una tragedia collettiva a noi più vicina, come l’11 settembre. Resta il dubbio su ciò che sarebbe potuto succedere se RFK avesse davvero corso contro Nixon per la presidenza degli Stati Uniti. Ma, come vedete, resta poco di cinematografico. A parte la sensazione che troppi divi forse possano soffocare un film, come succede nel caso di Anthony Hopkins, che ormai può solo interpretare se stesso.
10 gennaio 2007
L’anima nera del nuovo James Bond
Un prologo in bianco e nero sgranato che da solo vale quasi il prezzo del biglietto. Casino Royale, primo film del James Bond di Daniel Craig, si apre infatti con una serie di inquadrature che sono un omaggio alla storia del cinema: dai tagli vertiginosi dal basso cari a Orson Welles, al “correlativo oggettivo” (Montale mi perdoni) dello sguardo muto della macchina da presa di Hitchcock, alla violenza non mediata di Tarantino. Pochi minuti nei quali fa la sua comparsa un Bond fresco di nomina ad agente “doppio zero” che mette in mostra una carica di ambiguità e un’anima nera finora inedite per il personaggio. Straordinario.
E’ davvero una sorpresa piacevole di inizio anno questo Casino Royale, capace di uscire dal girone dei film di puro intrattenimento (cosa che peraltro fa molto bene) per collocarsi a pieno titolo – almeno a parere dell’aspirante cinefilo Kilgore – tra le opere più complesse e degne di nota. Craig è perfetto: il suo Bond getta a mare tutti gli aspetti da macchietta - non ce ne voglia l’ottimo Sean Connery che ha tutta la mia ammirazione, soprattutto da quando ha la barba – e costruisce un personaggio duro, violento, sfumato, meno gratuitamente ironico, perfino capace di disperazione. Come una traduzione dell’ideale hemingwayano del “Fare bene ogni cosa” – dalla guerra all’amore nell’idea dello scrittorone americano – il Bond di Craig sa uccidere a sangue freddo, catapultarsi nel vuoto, schivare un ostacolo improvviso in macchina a 200 all’ora. Ma sa anche che quando Vesper – a cui dice “Ti Amo”, questa sì che è una rivoluzione copernicana rispetto al machismo – piange sconvolta rannicchiata sotto la doccia, la cosa giusta da fare è mettersi seduto, in smoking, accanto a lei e scaldare un po’ la temperatura dell’acqua. Io ho impiegato cinque anni di matrimonio per capire che è esattamente così che ci si deve comportare in certe situazioni. Il Bond di Craig lo fa con una naturalezza – che depone ovviamente a favore della sceneggiatura – davvero meravigliosa.
Ma andiamo con ordine. Dopo l’eccellente attacco in bianco e nero ambientato a Praga, forse indiretto omaggio a Kafka, ecco che i titoli di testa sono un’altra bella sorpresa. Senza rinunciare al tradizionale stile cangiante e un po’ barocco che ha contraddistinto tutti i film di 007, questa volta l’esito è affascinante, grazie alla grafica computerizzata e alla eccezionale definizione. A questo punto siamo quasi in paradiso, ma non mancano le note meno liete: la lunga sequenza ambientata – a quanto ci dicono – in Madagascar è uno sfoggio di numeri da circo e balzi mozzafiato che però abbiamo già visto (non se ne può più della lotta sulle gru o sui ponteggi!!! Vi prego) e alla fine diventano quasi noiose. Stessa sensazione di latente deja vu anche quando l’azione si sposta alle Bahamas (dopo un breve ma intenso momento londinese tra Bond e il suo capo M): la bella che cavalca in riva al mare ha un retrogusto un po’ troppo anni 70. Ma è solo un attimo, da questo momento in avanti il film si riprende, seppur senza fretta, e ci offre le belle sequenze di Miami (bravo Claudio Santamaria, con l’espressione monocorde del terrorista), soprattutto quelle al museo e sulla pista dell’aeroporto.
Il vero clou del film è però ambientato in un Montenegro di sorprendente bellezza (sarà proprio così ci chiedevamo stupiti al cinema con gli amici Tom e Filo, ma qual è la capitale? Forse ha un futuro da meta di turismo internazionale...). La lunga scena del duello a poker tra Bond e il banchiere dei terroristi Le Chiffre, che piange lacrime di sangue, è cinema allo stato puro: magari senza elucubrazioni, ma di una concretezza filmica mirabile. Se a questo si aggiungono le ulteriori caratterizzazioni nuove del Bond di Daniel Craig (ammette – in qualche modo – di essere uno di quei disadattati che il governo assume per fare le cose peggiori, è tutt’altro che elegante di natura e tra i ricchi il suo corpo muscoloso tradisce un qualche imbarazzo sociale) ecco che il quadro si completa divenendo sempre più affascinante. E il contributo di Eva Green-Vesper è molto più importante di quello di un Giancarlo Giannini che ogni volta mi fa pensare all’Enel.
Mi sto dilungando troppo, devo stringere. Il film si alimenta dei continui tradimenti, oltre che di scene che esulano dal grigio terreno del verosimile (ma è tipico di un certo grande cinema farne a meno, vero Kusturica?) ma restano fedeli alla nuova filosofia di questo 007 capace di amare, di sopportare con dignità la tortura, perfino di covare il rancore di un innamorato tradito. Se il crollo del palazzo a Venezia è ridondante, la scena della morte di Vesper ha qualcosa di tristemente magico (mi fa pensare a Big Fish di Tim Burton). Il mondo esterno, intanto, è pieno di gente che tradisce, ma lo fa con ambiguità, con contorni grigi, con problemi di coscienza che, pure loro, sorprendono per l’ampiezza delle sfumature. La Guerra Fredda, che M in una memorabile battuta dice di rimpiangere, è proprio finita.
E siamo all’epilogo, quando il nostro Bond, ferito e disilluso, si avvicina pericolosamente al personaggio che abbiamo conosciuto nei film precedenti. Quando dice “My name is Bond, James Bond” una parte di me esulta per il gusto postmoderno della citazione pop, ma un’altra si chiede se non sia il caso di finire qui. Mi spiego: le cose migliori di questo nuovo 007 sono, a mio avviso, le novità rispetto al cliché, favorite anche dal fatto che qui si racconta una sorta di prequel rispetto alle note vicende del più celebre agente segreto. Da oggi il James Bond che tutti conoscevamo pare stia per tornare... Bond è vivo e lotta con noi, ma da quell’ultimo fotogramma, forse rassicurante per i fan tradizionali di 007, a me comincia a piacere meno.
E’ davvero una sorpresa piacevole di inizio anno questo Casino Royale, capace di uscire dal girone dei film di puro intrattenimento (cosa che peraltro fa molto bene) per collocarsi a pieno titolo – almeno a parere dell’aspirante cinefilo Kilgore – tra le opere più complesse e degne di nota. Craig è perfetto: il suo Bond getta a mare tutti gli aspetti da macchietta - non ce ne voglia l’ottimo Sean Connery che ha tutta la mia ammirazione, soprattutto da quando ha la barba – e costruisce un personaggio duro, violento, sfumato, meno gratuitamente ironico, perfino capace di disperazione. Come una traduzione dell’ideale hemingwayano del “Fare bene ogni cosa” – dalla guerra all’amore nell’idea dello scrittorone americano – il Bond di Craig sa uccidere a sangue freddo, catapultarsi nel vuoto, schivare un ostacolo improvviso in macchina a 200 all’ora. Ma sa anche che quando Vesper – a cui dice “Ti Amo”, questa sì che è una rivoluzione copernicana rispetto al machismo – piange sconvolta rannicchiata sotto la doccia, la cosa giusta da fare è mettersi seduto, in smoking, accanto a lei e scaldare un po’ la temperatura dell’acqua. Io ho impiegato cinque anni di matrimonio per capire che è esattamente così che ci si deve comportare in certe situazioni. Il Bond di Craig lo fa con una naturalezza – che depone ovviamente a favore della sceneggiatura – davvero meravigliosa.
Ma andiamo con ordine. Dopo l’eccellente attacco in bianco e nero ambientato a Praga, forse indiretto omaggio a Kafka, ecco che i titoli di testa sono un’altra bella sorpresa. Senza rinunciare al tradizionale stile cangiante e un po’ barocco che ha contraddistinto tutti i film di 007, questa volta l’esito è affascinante, grazie alla grafica computerizzata e alla eccezionale definizione. A questo punto siamo quasi in paradiso, ma non mancano le note meno liete: la lunga sequenza ambientata – a quanto ci dicono – in Madagascar è uno sfoggio di numeri da circo e balzi mozzafiato che però abbiamo già visto (non se ne può più della lotta sulle gru o sui ponteggi!!! Vi prego) e alla fine diventano quasi noiose. Stessa sensazione di latente deja vu anche quando l’azione si sposta alle Bahamas (dopo un breve ma intenso momento londinese tra Bond e il suo capo M): la bella che cavalca in riva al mare ha un retrogusto un po’ troppo anni 70. Ma è solo un attimo, da questo momento in avanti il film si riprende, seppur senza fretta, e ci offre le belle sequenze di Miami (bravo Claudio Santamaria, con l’espressione monocorde del terrorista), soprattutto quelle al museo e sulla pista dell’aeroporto.
Il vero clou del film è però ambientato in un Montenegro di sorprendente bellezza (sarà proprio così ci chiedevamo stupiti al cinema con gli amici Tom e Filo, ma qual è la capitale? Forse ha un futuro da meta di turismo internazionale...). La lunga scena del duello a poker tra Bond e il banchiere dei terroristi Le Chiffre, che piange lacrime di sangue, è cinema allo stato puro: magari senza elucubrazioni, ma di una concretezza filmica mirabile. Se a questo si aggiungono le ulteriori caratterizzazioni nuove del Bond di Daniel Craig (ammette – in qualche modo – di essere uno di quei disadattati che il governo assume per fare le cose peggiori, è tutt’altro che elegante di natura e tra i ricchi il suo corpo muscoloso tradisce un qualche imbarazzo sociale) ecco che il quadro si completa divenendo sempre più affascinante. E il contributo di Eva Green-Vesper è molto più importante di quello di un Giancarlo Giannini che ogni volta mi fa pensare all’Enel.
Mi sto dilungando troppo, devo stringere. Il film si alimenta dei continui tradimenti, oltre che di scene che esulano dal grigio terreno del verosimile (ma è tipico di un certo grande cinema farne a meno, vero Kusturica?) ma restano fedeli alla nuova filosofia di questo 007 capace di amare, di sopportare con dignità la tortura, perfino di covare il rancore di un innamorato tradito. Se il crollo del palazzo a Venezia è ridondante, la scena della morte di Vesper ha qualcosa di tristemente magico (mi fa pensare a Big Fish di Tim Burton). Il mondo esterno, intanto, è pieno di gente che tradisce, ma lo fa con ambiguità, con contorni grigi, con problemi di coscienza che, pure loro, sorprendono per l’ampiezza delle sfumature. La Guerra Fredda, che M in una memorabile battuta dice di rimpiangere, è proprio finita.
E siamo all’epilogo, quando il nostro Bond, ferito e disilluso, si avvicina pericolosamente al personaggio che abbiamo conosciuto nei film precedenti. Quando dice “My name is Bond, James Bond” una parte di me esulta per il gusto postmoderno della citazione pop, ma un’altra si chiede se non sia il caso di finire qui. Mi spiego: le cose migliori di questo nuovo 007 sono, a mio avviso, le novità rispetto al cliché, favorite anche dal fatto che qui si racconta una sorta di prequel rispetto alle note vicende del più celebre agente segreto. Da oggi il James Bond che tutti conoscevamo pare stia per tornare... Bond è vivo e lotta con noi, ma da quell’ultimo fotogramma, forse rassicurante per i fan tradizionali di 007, a me comincia a piacere meno.
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