Una ferita ancora aperta, una storia di quasi 40 anni fa che però ci parla di oggi, un racconto corale che si ispira ad Altman e che persegue anche un evidente intento politico. Il film “Bobby” di Emilio Estevez – sceneggiatore, regista e attore – è una grande ed appassionata elegia della figura e dell’azione politica di Robert Francis Kennedy, il fratello minore di JFK, ucciso in una frenetica notte losangelina nel momento in cui sembrava destinato a ripercorrere i passi del fratello verso la Casa Bianca. Un’altra favola politica interrotta che una parte dell’America non riesce a dimenticare e che il film di Estevez trasforma, pur con ottime intenzioni, in un’agiografia. Genere che, quando si parla di politica, è sempre un po’ pericoloso.
A voler essere crudi si potrebbe scrivere che “Bobby” è, in ultima analisi, un polpettone retorico. Il giudizio ci sta, ma se si guarda più a fondo si scopre che, sotto la noia della prima parte e dietro la visione quasi messianica di RFK (che appare solo nelle vere immagini di repertorio, come una divinità che non è lecito ritrarre), ardono alcune braci interessanti: dai bei personaggi femminili di Sharon Stone, Ellen Hunt e Demi Moore - gli unici caratteri veramente complessi del film – all’idea del regista di costruire un intreccio polifonico che troverà un punto comune nel momento degli spari di Shiran Shiran. Bene anche l’unità di luogo, l’Hotel Ambassador, che ricorda i dettami del teatro classico, mentre quella di tempo – ufficialmente presente - viene rotta dai discorsi del senatore e dalle immagini dell’epoca.
Ma poi vengono i dubbi. Dagli smaccati, e un po’ poco originali, parallelismi tra il Vietnam e l’Iraq all’eccesso di zucchero di certi personaggi e certe scene, dall’edulcorazione dei conflitti razziali alla banalizzazione dei sentimenti. Ma soprattutto a Kilgore gira per la testa una strana sensazione: “Bobby” è un film, ma forse non è cinema. Provo a spiegarmi: l’obiettivo della pellicola va oltre la creazione artistica, e questo ci può stare, ma le emozioni che si provano in sala (e a volte sono intense) non nascono dalla sceneggiatura o dalle inquadrature o dall’interpretazione degli attori bensì dalla Storia, quella che si studia a scuola, dai discorsi veri di Robert Kennedy, dal destino tragico che lo ha colpito.
Pensate a un altro film di grande successo e costruito con una certa coralità di personaggi, “Schindler’s List” di Steven Spielberg: è ovvio che anche in quel caso era la Storia a dare tragicità al racconto filmico, ma le emozioni nascevano anche dalle scelte del regista su come raccontare l’Olocausto. La drammaticità stava nel ruolo ambiguo del nazista Amon Goett-Ralph Fiennes, nella scelta di mettere una sola macchia di colore, nella tutt’altro che santificabile personalità dello Schindler di Liam Neeson. Tutte scelte del regista, tutte implicazioni cinematografiche. In “Bobby” invece tutta l’emozione viene convogliata sul senatore Kennedy e le storie dei vari personaggi più o meno anonimi, che pure “sono” il film, sembrano scomparire accanto a lui, che pure non è impersonato da nessun attore, e anche questo, a ben guardare, allontana il film dal cinema.
Resta l’emozione umana e, se la si condivide, quella politica. Resta la commozione e il senso di smarrimento di fronte alla violenza. Resta la sensazione che se il Vietnam nasconde l’Iraq la morte di Bobby ci parli di una tragedia collettiva a noi più vicina, come l’11 settembre. Resta il dubbio su ciò che sarebbe potuto succedere se RFK avesse davvero corso contro Nixon per la presidenza degli Stati Uniti. Ma, come vedete, resta poco di cinematografico. A parte la sensazione che troppi divi forse possano soffocare un film, come succede nel caso di Anthony Hopkins, che ormai può solo interpretare se stesso.
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