L'amore impossibile secondo Takeshi Kitano. A guardare da lontano il bellissimo film “Dolls” del 2002, e a leggere quanto dichiara lo stesso regista giapponese, questo dovrebbe essere il senso della sua opera (forse) più bella. Ma in realtà “Dolls” è un grandissimo film sull'amore a tutto tondo, in particolare sulla sua natura contraddittoria e intrinsecamente destinata alla delusione. Non è però – secondo Kilgore che di Kitano è un grande ammiratore - la negazione dell'amore quella cui si arriva, bensì la sua sublimazione, la sua perfezione devastante, quello che per Walt Withman è il noto "midollo della vita". Una teologia negativa, venata pure di violenza, ma straordinariamente struggente, un'aspirazione quasi alla Lessing a una purezza impossibile (perché il giovanotto si piega "al successo", perché lo yakuza sceglie il clan, perché il fanatico rinuncia a vedere la sua amata) ma in fondo appagante. E forse questa è la vera essenza della vita. Forse.
La vicenda tocca tutte le corde del romanticismo, ma Kitano è sempre abbastanza burbero da non diventare melenso, mentre una componente melodrammatica è indispensabile - Casablanca docet - e serve a portare il film due passi al di sopra della media. Kilgore confessa addirittura due momenti di lacrima: quando lo yakuza ritrova la donna che per anni lo aveva aspettato su una panchina il sabato e quando la ragazza si ricorda del ciondolo. Straordinario: viaggio alla radice profonda dei sentimenti umani.
Molto buono poi anche a livello di immagini: i colori sono potenti, la macchina da presa si muove con la disinvoltura di un autodidatta di genio e la violenza è sempre solo immaginata (e quindi più impattante). Eccezionali i silenzi alla Kitano e la devastazione muta dei protagonisti. E’ vero, talvolta al regista sfugge qualche inquadratura un po’ di maniera, ma il peccato mi pare veniale. Inquietantissimi i personaggi del teatro medievale Bunraku (Kilgore deve le spiegazioni tecniche all’amica Yoshino, grande esperta di cultura giapponese) che hanno occhi che indagano direttamente lo spettatore e sottendono la storia profonda dei due vagabondi legati, che trovano pace nel doppio suicidio, lo shinjuu.
Un’ultima cosa: mi pare che “Dolls” abbia molti punti in comune con i film di Kim Ki-duk. Che i due autori si siano influenzati a vicenda?
16 marzo 2007
11 marzo 2007
Kevin Canty e i racconti perfetti
Undici racconti dal cuore degli Stati Uniti che fotografano i lati meno conosciuti della società americana e offrono, accanto a uno stile che regge il confronto con quello dei grandi maestri della narrazione breve, una lettura poetica e in fondo ottimista delle circostanze della vita."Tenersi la mano nel sonno" è il primo libro dello scrittore americano Kevin Canty a essere pubblicato in Italia - edizioni Minimum Fax - e nelle sue 150 pagine rinnova felicemente la tradizione della short story americana. "Sono un profondo ottimista - ha detto lo scrittore, che Kilgore ha intervistato a Milano - e benché non tutte le cose che ci capitano sianonecessariamente positive, credo che si possa arrivare a crescere e a migliorare anche attraverso il dolore". Un passaggio che si adatta perfettamente alla struttura dei racconti di Canty, neiquali un senso di minaccia e di pericolo è sempre presente sullo sfondo, ma spesso si stempera in una svolta positiva, in una ritrovata pace, che danno al lettore una sensazione di sollievo."Mi auguro - ha aggiunto lo scrittore - di riuscire a dare speranza".
Nato a Berkeley nel 1953, biondo e imponente, con una lunga serie di mestieri alle spalle, Canty scrive di una relazione complicata tra zia e nipote che pure, nelle profonde diversitàtra loro e passando per spazi ambigui e pericolosi, riescono in qualche modo a portare avanti il loro amore. Oppure racconta di un nonno che deve recuperare il nipotino lasciato solo a casa dalla madre drogata e in questo viaggio notturno e misterioso l'uomo trova una compagna inattesa. O ancora il matrimonio tra una ragazza che è stata obesa e il suo uomo insonne: dopo paginedi straziante precisione ecco la frase finale: "La nostra piccola storia va avanti un giorno in più". Racconti di periferia americana insomma, geografica e sociale, nei quali però non cisono solo drammi, ma anche la possibilità di una vita normale, pure nel caos e nelle difficoltà del presente.
Tra le undici storie di Canty spicca "Il vestito rosso", racconto dell'apprendistato alla vita di un ragazzino finalmente ammesso a servire come barman alle feste organizzate dai genitori. Si troverà a oltrepassare la propria linea d'ombra, a scoprire dei segreti su sua madre e infine a stabilire un rapporto di muto rispetto con lei. Il tutto in circa 12 pagine. Straordinario, un modello per il racconto perfetto. "E' un racconto nato per caso - ha spiegato Canty - dalla mia curiosità per un manuale sulla preparazione dei cocktail. Poi la storia ha preso una sua direzione autonoma, io non sapevo dove sarebbe andata a finire, e i personaggi si sono composti scrivendo. Non sono io il protagonista e i genitori non rappresentano i miei genitori". Un metodo di creazione delle storie che Kevin Canty adotta sempre: "Inizi a scrivere una storia - ha detto - partendo dal mezzo, poi il resto si compone strada facendo". Una certezza però c'è fin dall'inizio: la dimensione della narrazione. "Alcune storie nascono come romanzi, altre come racconti. Proprio perché alcune hanno bisogno di molte pagine, altre di poche". A differenza di grandi della narrazione breve come Carver o Cechov, Canty ha infatti al suo attivo anche tre romanzi e rivela di avere già idee anche per altri.
Nei racconti di "Tenersi la mano nel sonno" passano comunque molte delle inquietudini sociali dell'America: dall'alcolismo all'obesità, dalla malattia alla droga. Ma forse il vero filo rosso che unisce le storie è la narrazione delle molte forme della solitudine. "Io sono cresciuto in una grande famiglia dove non si era mai soli, ma per scrivere cerco di guardare agli altri, alle esperienze degli altri. Si è soli in tanti modi". E la letteratura per Canty può essere anche uno degli antidoti alla solitudine, oltre che un modo per crescere attraverso dei percorsi che ciascuno trova nella pagina scritta e che può poi forse declinare nella propria vita.
Nato a Berkeley nel 1953, biondo e imponente, con una lunga serie di mestieri alle spalle, Canty scrive di una relazione complicata tra zia e nipote che pure, nelle profonde diversitàtra loro e passando per spazi ambigui e pericolosi, riescono in qualche modo a portare avanti il loro amore. Oppure racconta di un nonno che deve recuperare il nipotino lasciato solo a casa dalla madre drogata e in questo viaggio notturno e misterioso l'uomo trova una compagna inattesa. O ancora il matrimonio tra una ragazza che è stata obesa e il suo uomo insonne: dopo paginedi straziante precisione ecco la frase finale: "La nostra piccola storia va avanti un giorno in più". Racconti di periferia americana insomma, geografica e sociale, nei quali però non cisono solo drammi, ma anche la possibilità di una vita normale, pure nel caos e nelle difficoltà del presente.
Tra le undici storie di Canty spicca "Il vestito rosso", racconto dell'apprendistato alla vita di un ragazzino finalmente ammesso a servire come barman alle feste organizzate dai genitori. Si troverà a oltrepassare la propria linea d'ombra, a scoprire dei segreti su sua madre e infine a stabilire un rapporto di muto rispetto con lei. Il tutto in circa 12 pagine. Straordinario, un modello per il racconto perfetto. "E' un racconto nato per caso - ha spiegato Canty - dalla mia curiosità per un manuale sulla preparazione dei cocktail. Poi la storia ha preso una sua direzione autonoma, io non sapevo dove sarebbe andata a finire, e i personaggi si sono composti scrivendo. Non sono io il protagonista e i genitori non rappresentano i miei genitori". Un metodo di creazione delle storie che Kevin Canty adotta sempre: "Inizi a scrivere una storia - ha detto - partendo dal mezzo, poi il resto si compone strada facendo". Una certezza però c'è fin dall'inizio: la dimensione della narrazione. "Alcune storie nascono come romanzi, altre come racconti. Proprio perché alcune hanno bisogno di molte pagine, altre di poche". A differenza di grandi della narrazione breve come Carver o Cechov, Canty ha infatti al suo attivo anche tre romanzi e rivela di avere già idee anche per altri.
Nei racconti di "Tenersi la mano nel sonno" passano comunque molte delle inquietudini sociali dell'America: dall'alcolismo all'obesità, dalla malattia alla droga. Ma forse il vero filo rosso che unisce le storie è la narrazione delle molte forme della solitudine. "Io sono cresciuto in una grande famiglia dove non si era mai soli, ma per scrivere cerco di guardare agli altri, alle esperienze degli altri. Si è soli in tanti modi". E la letteratura per Canty può essere anche uno degli antidoti alla solitudine, oltre che un modo per crescere attraverso dei percorsi che ciascuno trova nella pagina scritta e che può poi forse declinare nella propria vita.
35 versi
Io devo andare
Disse comunque imprigionata
Dall’inquadratura
Resta, solo per un bicchiere
Per salutar la notte
Che ormai già ci condanna
Io devo andare
Dissero le sue corde vocali
Mentre smentivano il bioritmo
Non c’è più niente che tu debba fare
Salvo sognare che tutto questo
Accade
Io me ne sono andata, ormai da tempo
Disse il suo cuore immoto
Che l’avvinghiava allo schienale
Ma il tempo di un ultimo sorso
Di quel liquore che io,
povero astemio, non ho bevuto
Io devo andare
Fuori da questa scena stinta
Che la tua mente ancora filma
(Quale realtà oltre la cinepresa)
Se credi, allontanandoti,
Spegni la luce
Sui treni la notte
Incontro solo stranieri e ti rivedo
Quasi in ognuno di loro
Tanto lontana sono scappata
Perché il tuo odore
Mi abbandonasse
Fermati ancora, lo spazio
Di un sorriso e di un rimpianto
Ben assestato
Che nella calca, ieri l’altro,
Temo di aver perduto
Disse comunque imprigionata
Dall’inquadratura
Resta, solo per un bicchiere
Per salutar la notte
Che ormai già ci condanna
Io devo andare
Dissero le sue corde vocali
Mentre smentivano il bioritmo
Non c’è più niente che tu debba fare
Salvo sognare che tutto questo
Accade
Io me ne sono andata, ormai da tempo
Disse il suo cuore immoto
Che l’avvinghiava allo schienale
Ma il tempo di un ultimo sorso
Di quel liquore che io,
povero astemio, non ho bevuto
Io devo andare
Fuori da questa scena stinta
Che la tua mente ancora filma
(Quale realtà oltre la cinepresa)
Se credi, allontanandoti,
Spegni la luce
Sui treni la notte
Incontro solo stranieri e ti rivedo
Quasi in ognuno di loro
Tanto lontana sono scappata
Perché il tuo odore
Mi abbandonasse
Fermati ancora, lo spazio
Di un sorriso e di un rimpianto
Ben assestato
Che nella calca, ieri l’altro,
Temo di aver perduto
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