A settantacinque anni compiuti e svariate nomination, mai concretizzatesi, al Premio Nobel, Philp Roth continua a stupire con un nuovo romanzo: “Indignation”, uscito da poche settimane negli Usa e in Gran Bretagna. Una storia tragica, a metà strada tra Shakespeare e i film dell’orrore, che racconta la discesa all’inferno di una matricola universitaria, Marcus Messner, coinvolto suo malgrado in una serie di spiacevoli eventi che lo conducono inesorabilmente al suo destino. Con straordinaria capacità di rinnovarsi pur rimanendo se stesso, Roth reinventa il romanzo di formazione e lo declina in una lucida digressione sull’eterna lotta tra l’aspirazione alla libertà e il conformismo, in fondo sempre trionfante. Marcus paga la propria volontà di solitudine, la scelta di rifiutare gli scontri diretti, l’ambizione a essere se stesso alle proprie condizioni. La società non lo permette, e la sua giusta indignazione è proprio ciò che innesca gli eventi che lo distruggeranno.
A 13 anni da “Il teatro di Sabbath”, monumentale e forse sottovalutato romanzo che ha inaugurato una delle più stupefacenti maturità letterarie dei nostri tempi, Philp Roth continua magistralmente a raccontare l’universo ebraico, il sesso, la ribellione e, negli ultimi anni sempre più, la morte. E proprio Sabbath, il burattinaio perverso e disperatamente umano, sembra essere il personaggio più distante dal Marcus di “Indignation”, definito dalla New York Review of Books “il miglior ragazzo del mondo”. Eppure Roth, la cui capacità di raccontare gli abissi con apparente leggerezza lo rende sempre più shakespeariano, pagina dopo pagina colma la distanza tra i due, che in fondo appaiono come due facce di una stessa medaglia: uomini che hanno cercato furiosamente di marcare la propria strada, i propri amori, le proprie ossessioni e alla fine sono stati sconfitti. Da chi? Probabilmente dal mondo, ma forse pure dal destino e da qualcuno che si arroga il diritto e la pretesa di detenere la Verità.
La critica americana ha parlato di un libro “strano”, qualcuno anche di un “errore” di Roth, seppure “intrigante”. Ma “Indignation” sembra la naturale conseguenza del percorso rothiano degli ultimi anni, segnato dall’indagine sempre più profonda e lontana da ogni autocompiacimento dentro la decadenza, fisica, psicologica e morale degli uomini. Che tentano disperatamente di opporvisi con quel vitalismo che ha reso immortale un Nathan Zuckerman, ma non possono che arrendersi davanti all’orrore infinito con cui si trovano a dover fare i conti. E’ così per Sabbath, ma anche per Seymour Levov, il magnifico “svedese” di “Pastorale americana”, e per Coleman Silk, l’enigmatico docente de “La macchia umana”. E l’orrore, della morte, del vuoto, del silenzio pervade gli altri grandi romanzi degli anni Duemila come “L’animale morente”, “Everyman”, “Il fantasma esce di scena”. Ma è curioso e geniale che a chiudere il cerchio, almeno per ora, sia un ragazzo che si affaccia alla vita e non un anziano romanziere che racconta in prima persona la propria odissea nella vecchiaia. Marcus non vuole diventare scrittore, Marcus cerca soltanto di seguire la propria strada senza deludere chi crede in lui e senza rinunciare alle proprie convinzioni. Si troverà, fissato in una condizione di eterno narratore, a dover rinunciare a tutto tranne che ai ricordi. E l’unica via di salvezza a quel punto sarà il racconto, la narrazione. Che non basta a salvarci la vita, ma è forse l’unica strada che Roth ci può indicare per provare a superare, almeno in parte, la paura dell’orrore che nei suoi romanzi riusciamo a intravedere sotto la patinatura della realtà.
1 commento:
grande Philip!
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