22 marzo 2010

Jules e Jim, appunti su un romanzo e un film

Jules e Jim: il più celebre triangolo amoroso del cinema d’autore o, almeno, il più delicato, quello che – grazie al cielo – esclude le situazioni da Attrazione fatale e prova anche a raccontare la più difficile tra le amicizie maschili: quella di due uomini che amano la stessa donna . Prima del film viene però il romanzo di Henry-Pierre Roché, pubblicato in Francia nel 1953 e passato sostanzialmente inosservato. L’autore debuttò sulla scena letteraria a 74 anni, pur con un libro che viene definito, ed è per molti versi, adolescenziale.

Il titolo avrebbe dovuto essere Un amitié, e questo è un segnale sul senso profondo della storia di Roché. Il romanzo ha una qualità fondamentale, soprattutto nella prima parte: quella della leggerezza, che la mano magica di Truffaut riesce a trasferire in tutto il film. La storia di Roché è autobiografica, con lui stesso nella parte del francese Jim, lo scrittore Franz Hessel in quella di Jules e la bellissima Helen Grund che nel romanzo diventa Kathe, poi trasformata in un più accessibile Catherine nel film. L’interesse però, più che sul gioco del romanzo a chiave, sta nella originale universalità della storia che racconta e nello stile – rapido, ironico, lieve – che lo scrittore ha scelto per raccontarla

In questo senso la prima parte del libro, quella in cui non c’è Kathe, è meravigliosamente felice e ricca di sensualità. Quello che colpisce è la non dissolutezza di Jules e Jim, pur nel loro sereno dongiovannismo. La seconda parte, pur introducendo il personaggio di Kathe che è memorabile, è artisticamente più debole, forse perché soffre del coinvolgimento autobiografico di Roché. Quella brillantezza di linguaggio e quelle frasi brevi che erano il tesoro della prima parte un po’ poi si perdono. Fino alla gestione, mirabile, del finale choc.

Truffaut scoprì il libro prima di diventare regista e se ne innamorò perché lo trovò “una dimostrazione dell’impossibilità di qualunque combinazione amorosa al di fuori della coppia”. Scrive il regista: “Leggendo Jules e Jim ebbi la sensazione di trovarmi di fronte un esempio di ciò che il cinema non riusciva mai a fare: mostrare due uomini che amano la stessa donna senza che il pubblico possa fare una scelta affettiva tra questi personaggi, tanto si trova costretto ad amarli tutti e tre nella stessa misura”. E per Truffaut il loro triangolo è “Un amore puro a tre”.

La sintassi di Roché, che è parte integrante della storia, si trasferisce nel film in scene brevi, intervallate da dissolvenze e altri escamotage “di passaggio” e, soprattutto nelle più belle riprese da nouvelle vague: Jules, Jim e Catherine che vanno per le strade di Parigi con lei vestita da uomo, i tre al mare o nella palestra di pugilato, oppure ancora nella meravigliosa scena di loro che corrono in bicicletta insieme all’ambiguo Albert. In questi momenti il film, come scrive Fernaldo Di Giammatteo nel Dizionario dei capolavori del cinema, “emana un acuto senso di libertà, che una mobilissima macchina da presa esprime cogliendo gioie, tristezze e piaceri dei protagonisti”. E anche i movimenti delle inquadrature, a volte bruschi e apparentemente amatoriali, sono la traduzione tecnica dei quella semplicità di vita che è la cifra migliore del racconto di Roché. Le musiche di Georges Delerue, quasi sempre felici, a volte più intimiste, contribuiscono all’atmosfera magica del film.

Truffaut voleva che Jules e Jim – opera che resta sostanzialmente fedele al romanzo di Roché, pur con piccole licenze e qualche semplificazione di trama e personaggi – fosse un film non “alla moda”. Il modello per il regista sono stati i “filmetti della MGM” della metà degli anni Quaranta, “film – spiega Truffaut – che avevano l’unico difetto di essere convenzionali, ma che rendevano bene l’idea di un grosso libro di ottocento pagine, con gli anni che passano e i capelli bianchi che fanno la loro comparsa”. Il libro di Roché non è lungo, ma – grazie a una sapiente gestione del tempo che, per esempio, liquida la Prima Guerra mondiale in poche righe – è lungo l’arco temporale che copre e, soprattutto, l’arco sentimentale che descrive.

Il film, vietato ai minori di 18 anni e in Italia quasi messo al bando, rappresentava anche una sfida alla morale comune del tempo. In questo senso le opere di Roché e Truffaut sono assolutamente speculari (seppur le immagini siano del tutto e totalmente pudiche, mentre le parole sono spesso più allusive ed esplicite): i tre protagonisti non sono immorali, sono dotati di una moralità diversa, ma non meno pura. La moralità dell’amicizia e dell’amore assoluto, sciolto. Potremmo dire che sono esempi viventi del migliore relativismo, unico antidoto - se ben usato - contro tutti gli integralismi.

Scrive ancora Truffaut: “La sceneggiatura di Jules e Jim non piaceva alla gente. I distributori dicevano: la moglie è una puttana, il marito sarà un personaggio grottesco, eccetera. La scommessa, per me, era che la moglie commuovesse (senza ricorrere a mezzi melodrammatici) e non fosse una puttana, e che il marito non fosse ridicolo. Mi piace tentare di arrivare a una cosa che non è chiara all’inizio”.

Un’ultima notazione sugli attori: giustamente celebrata Jeanne Moreau, che impersona il personaggio più complesso e difficile rendendo bene il senso di costante sofferenza che arde sotto l’apparente spensieratezza anarchica. “Le sue qualità di attrice e di donna – scrive il regista – rendevano Catherine reale sotto i nostri occhi, plausibile, folle, smodata, appassionata, ma soprattutto adorabile, cioè degna di adorazione”. Ma altrettanto notevoli sono le interpretazioni di Oskar Werner, protagonista anche di Fahrenheit 451 dello stesso Truffaut, che è un Jules tenero e ingenuo prima, attonito e provato poi, e quella di Henri Serre, attore debuttante scelto dal regista per la sua somiglianza con Roché, che è un Jim “alto, magro, dolce e onesto”. Nella mimica ridotta e un po’ rigida dei due uomini, che a volte fanno pensare al cinema muto, scorre la morale minima della storia, la sua capacità di parlare con delicatezza anche delle tematiche più ustionanti.

In sintesi: il libro di Roché è un romanzo importante, ma il film di Truffaut come opera d’arte lo supera, perché riesce a coglierne il meglio, rinunciando alle parti più faticose e a volte auto commiseranti del testo di Roché. Grandi libri quasi sempre diventano film deludenti. Libri in qualche modo minori, si pensi all’opera di Kubrick, a volte hanno la forza di diventare capolavori del cinema. Forse questo è il caso di Jules e Jim.

19 marzo 2010

Jonathan Safran Foer: io sto con gli animali

Dopo il successo mondiale di due romanzi come Ogni cosa è illuminata e Molto forte incredibilmente vicino Jonathan Safran Foer, 33enne star della letteratura americana, torna nelle librerie italiane con Se niente importa (Guanda), un saggio che risponde, anche con toni molto duri, alla domanda sul perché mangiamo gli animali. “Abbiamo intrapreso una guerra – scrive Safran Foer – o meglio abbiamo permesso che si intraprendesse una guerra contro tutti gli animali che mangiamo. Questa guerra è nuova e ha un nome: allevamento industriale”. Vegetariano a singhiozzo per molti anni, come racconta lui stesso, lo scrittore si è posto seriamente di fronte al problema del consumo di carne dopo la nascita dei suoi figli e, come ha spiegato a Kilgore nel corso di un incontro a Milano, si è concentrato “sulla differenza tra le cose che ci raccontano a proposito del cibo e la realtà”. Quello che colpisce, nel libro di Safran Foer, è l’assenza di posizioni ideologiche, spesso ricorrenti in libri che trattano per esempio l’argomento del vegetarianesimo, che alla fine risulta essere una scelta dettata dalla presa di coscienza delle pratiche terribili cui gli animali vengono sottoposti nel 99% degli allevamenti e dal costo ambientale elevatissimo correlato al sistema di produzione del cibo.

“La letteratura – ci ha detto Safran Foer – è utile per ricordarci le cose che, presi dalle circostanze della vita, spesso finiamo con il dimenticare. Il punto è che ci può incoraggiare ad agire meglio e ci può anche aiutare a sentire più profondamente le cose”. Ma, e su questo lo scrittore è categorico, Se niente importa non è un’opera d’arte (“L’arte dovrebbe essere solo fine a se stessa”), ma il resoconto di un’indagine lunga tre anni che vorrebbe sollevare il velo che nasconde gli orrori e le sofferenze che gli animali destinati a diventare cibo per le nostre tavole subiscono quotidianamente, e su vastissima scala. Sofferenze che, spiega Safran Foer, forse possiamo capire solo se le inseriamo in una storia che parla di noi. E quindi, chiediamo, la letteratura può in qualche modo salvare noi e gli animali? “Un libro non salva le vite – ha risposto lo scrittore – ma può contribuire a vasti cambiamenti culturali. Io credo che i libri possano cambiare i lettori, e spero che qualcuno leggendo il mio saggio possa cambiare idea sulla carne. Ma comunque non è questo il motivo per cui ho cominciato a scriverlo”.

Una delle parole ricorrenti nelle pagine di Safran Foer è vergogna (definita “il lavoro della memoria contro la dimenticanza”): “La vergogna – ci ha detto – è molto utile, e spesso ti impedisce di fare cose che non dovresti, ci aiuta a essere migliori. Alle volte avremmo davvero bisogno di vergognarci di più”. Dallo sterminio degli animali allo stermino degli esseri umani a volte il passo può sembrare breve e non sono mancati parallelismi con la Shoah, ma Jonathan Safran Foer non ama questo paragone: “Non ho problemi con chi lo vuole fare, ma non è appropriato: qui si parla di animali da allevamento e non di uomini. Non dobbiamo considerarli come esseri umani, ma semplicemente come animali”. Con il rispetto che si deve agli esseri viventi e senza dimenticare che il problema riguarda tutti noi, dato che gli allevamenti di animali contribuiscono al riscaldamento globale più di tutti i trasporti del mondo messi insieme.

Un’ultima notazione sul titolo italiano (in originale è Eating Animals): il riferimento è alla nonna dello scrittore che, anche nella fame più nera durante la guerra in Ucraina non mangiò la carne di maiale donatale da un contadino russo, perché non era kosher, neppure per salvarsi la vita. “Se niente importa – spiegò la donna al nipote – non c’è niente da salvare”.

02 marzo 2010

Per E.L.M.

Quando è successo, mi hai chiesto
Cosa hai pensato
Ti ho visto, gli ho risposto
In una luce di perfezione
C’era del sangue, volle sapere
Da qualche parte sì, ne sono quasi certo
Sulla tua testa, e su uno zigomo
Se non m’inganna il tempo
Cosa hai pensato
Forse a Parmenide o alla pioggia
No, eri una scimmia, questo ho pensato
Una scimmia esatta, sovrumana
Inaspettatamente carica d’esperienza
E ti è bastato
Penso di sì, ma era ormai notte fonda
Ed io ero stanco
E tu eri stanco

Sai, certe parole sono un tesoro
Non sprechiamo questa felicità

Quando è successo, mi hai chiesto
Cosa hai pensato
Alla morte, alla mia morte
Non ti capisco papà
Finché sei figlio sei come immortale
Tutti lo siamo fino a prova contraria
E’ vero, tu sei un ragazzo saggio
Ma tu nascevi e io incominciavo a morire
Naturalmente non era colpa tua
Era la divina indifferenza della biologia
O di Dio, sceglila tu la parola
Mi dispiace
Non dovrebbe, è stato tutto naturale
Anche le mie lacrime che,
Adesso lo capisco,
Erano più per me che per te

(2029)