“Sono stato cordialmente invitato a fare parte del realismo viscerale”. La nota diaristica del giovane poeta Juan Garcia Madero che apre I detective selvaggi di Roberto Bolaño descrive con una certa precisione il mio stato d’animo in questo momento. L’invito a prendere parte a questo incontro fondativo generazionale mi lusinga e, come per Garcia Madero, mi lascia un vago retrogusto di inadeguatezza, unito a qualche lampo di incertezza. La proposta apparsa sulla Domenica del Sole24Ore, comunque, aveva il merito di porre molte domande, e trovare una possibile risposta alle domande, o, meglio, formulare ulteriori domande che spingano l’asticella più in alto è un’attività già di per sé meritoria.
“Dare un senso a quello che facciamo” e “superare la linea d’ombra” sono obiettivi molto ambiziosi, che ciascuno persegue nel privato del proprio lavoro, ma che, a livello collettivo, possono conferire una cifra generazionale. E la nostra generazione, per quanto l’aggettivo possessivo mi lasci una certa inquietudine, è quella che ha vissuto più chiaramente sulla propria pelle e sul proprio intelletto gli effetti della società dello spettacolo di Guy Debord. Siamo stati testimoni, e attori per quanto inconsapevoli o nolenti, del passaggio, come scrive Alain Finkielkraut a proposito di Albert Camus, da “l’essere-nel-mondo della vecchia umanità” a “un essere-per-lo-schermo, svincolato dalla gravità, in grado di superare ogni distanza, imbottito di impressioni sensazionali, collegato a tutti i luoghi del mondo, ma separato dalla materia delle cose”. Un passaggio che, a mio modesto avviso, ha rappresentato per molti versi una grande opportunità (per uscire dal provincialismo, o almeno per averne la possibilità, per avvicinarsi alla natura rizomatica della realtà, qualunque cosa questa parola indichi, per sperimentare un flusso di comunicazione e di cultura a tratti vorticoso, a tratti annichilente), ma che ha anche, questa opportunità, aperto le porte a un certo sconforto, a uno sfinimento dello spazio (per dirla con Pincio), a un malessere che coglie il navigante la prima volta solo davanti all’immensità del mare (e Conrad, che ha descritto forse il nero più nero della storia della letteratura nella notte del naufragio del Patna, credo lo conoscesse bene).
Nicola Lagioia ha descritto con chiarezza il meccanismo che, nel corso degli anni Ottanta per noi cruciali, ha portato a quell’abbassamento culturale letterariamente (ma non solo?) rappresentato dall’apparizione in tv del Drive-In (“E noi ridevamo”). Il meccanismo che ha portato a generare quel Sistema che oggi è la televisione-società-politica la cui intelligenza si è autoalimentata e ha travalicato (forse) le stesse intenzioni di chi lo ha generato. Del resto la mitologia e la storia sono piene di figli che ambiscono a divorare i padri (talvolta con successo, talvolta meno) e ora che in qualche modo possiamo percepirci come figli di questo meccanismo sta, credo, a noi scegliere quale posizione assumere. Giorgio Vasta ha parlato della fine della rabbia che aveva alimentato le generazioni precedenti e ha citato giustamente il parallelo con la pazzia di Amleto, ben descritta anche da Massimo Cacciari: “Operare ‘quaggiù’ può apparire così difficile e tormentoso – scrive il filosofo in Hamletica – de indurci o ‘sedurci’ al non fare, a decidere di ‘secedere’ dal fare”. E più avanti aggiunge: “Non potendo impersonare compiutamente il proprio dèmone, ‘soddisfare’ il proprio destino, vivendo, anzi, nella distanza incolmabile tra il contenuto della sua volontà e il senso del suo agire, Amleto non può che ‘rappresentarsi’”. Siamo al cuore del problema e della sfida che, a mio modesto avviso, si pone davanti a noi: persistere – come provocatoriamente denuncia Vasta – nell’inazione del dubbio oppure, forti della lezione postmoderna, che al di là di specifiche valutazioni di merito esiste ed è significativa, spiccare il salto sopra l’abisso immaginario che apparentemente distingue (anche fisicamente, come un fiume tra due città straniere) l’idea della rappresentazione dall’idea della realtà. L’arte e la cultura sono l’arma di cui possiamo disporre, un’arma che non dovrebbe ambire a distruggere il Sistema (i tempi degli eroici furori, è vero, sono lontani, forse per fortuna), ma che può provare a gestirlo, con enorme fatica, ricorrendo a una sorta di etica minore, capace di guidare le scelte individuali e di restituire un respiro alla sommatoria delle azioni individuali (che poi può assumere la forma di sentieri, percorsi, condivisioni di intenti) che, sul palcoscenico della realtà, possiamo leggere come identità collettiva della generazione TQ.
Partire dal “ciò che non siamo / ciò che non vogliamo” di Montale è un primo passo, mangiarci i maestri, per dirla con Marco Belpoliti, è un altro. Abbiamo la fortuna di sapere, con una chiarezza libera da illusioni, che l’interrogazione di K. davanti al Castello – è sempre Cacciari a metterlo nero su bianco – “fallisce perché non c’è nulla da scoprire, nessun arcano da disvelare” (“Voi siete la prima generazione cresciuta senza religione” ha più semplicemente detto Michael Stipe, citato da Douglas Coupland, uno che di generazioni ne ha descritte almeno tre). E questa consapevolezza, in potenza annichilente, può essere espressa, con ricchezza e infinite sfumature, dall’arte e dalla letteratura. Che diviene una via, una risposta (rigorosamente con la r minuscola), un’opportunità di fissare il campo di gioco entro il quale siamo chiamati – scrittori, ma anche critici ed editori – a muoverci. Ricordando sempre, e qui sono convinto si misuri il coraggio di una generazione seria, la fondamentale massima di Cioran: “Nessuno degli atti da noi compiuti merita la nostra adesione”.
“Non sono l’incultura o la barbarie – scrive ancora Finkielkraut – a ridurre la letteratura all’impotenza, ma l’ondata narrativa, e dunque letteraria, dei pregiudizi e degli stereotipi che conferiscono a ciascuna epoca una particolare fisionomia, tonalità, coerenza. L’Altro dalla letteratura trae la propria forza dal’essere un’altra letteratura, dalla capacità di soddisfare le attese. […] L’ignoranza non è un vuoto, ma un troppo-pieno di scenari e di certezze, che bisogna perciò svuotare”. In questo contesto si può pensare di diventare generazione: assumendo le premesse filosofiche della situazione (in senso debordiano) con cui ci troviamo a dover fare i conti e provando, e qui si marcherebbe una differenza – seppur minore – con gli anni che ci hanno preceduto, a rinunciare ad avere ragione, scegliendo soltanto di essere-nel-nostro-tempo. Che non significa astoricismo, bensì la sublimazione del suo contrario, ossia il tentativo di lavorare con una forte consapevolezza del passato, dei suoi successi, spesso grandiosi, e dei suoi, frequentemente tragici, errori. Per farlo credo occorra, oltre che abbattere le barriere ostinatamente ideologiche, anche attraversare i generi e le scritture, guardare con occhio laico e non di casta ai movimenti esterni alla società letteraria propriamente intesa, insomma giocare in trasferta sul campo delle discipline e anche della alterità culturale.
Lo scrittore Aurelio Picca sul Corriere della Sera ha proposto un ritorno ai “doveri” in contrapposizione al secolo dei “diritti individuali” che si è da poco concluso. L’invito, in qualche modo diretto anche a questa assemblea, mi pare interessante solo se percepito in un’ottica kantiana, di dovere interiore verso se stesso in primis, come precondizione per qualsiasi attività che si ponga come indagatrice del mondo. Decaloghi e retoriche specifiche – religione, patria, bene comune – mi sembrano invece esulare da quello che è il compito della letteratura. E Filippo La Porta, sullo stesso giornale, ha invitato tutti a “rassegnarsi: la letteratura non ‘incide’ mai sulla realtà, o almeno nei tempi e modi che ci prefiguriamo”. Credo che si possa essere d’accordo con lui e al tempo stesso rivendicare comunque l’utilità di un percorso che crea una posizione (filosofica se si vuole, ma non necessariamente, di certo immateriale) dalla quale partire per elaborare individualmente le proprie specifiche uscite dalla caverna platonica evocata dal critico.
Credo che quello che oggi si possa fare sia seguire dei modelli, e parlo dal punto di vista di chi scrive di letteratura e di cultura, che esistono e che sono rappresentati, solo per citare alcuni nomi clamorosamente evidenti, da David Foster Wallace o da Camus (entrambi morti a 46 anni e dunque, in qualche modo, anche lo scrittore francese potrebbe rientrare tra i TQ). Cercare di lavorare avendo presente il “cuore intelligente” di Finkielkraut, ossia quella convergenza tra la componente più emozionale e la riflessione sulla realtà, e di pensare la critica come qualcosa che vive intorno e con la letteratura, che ne mutua a volte le forme in un gioco di continui rimandi che ci riportino sia a sudare nel letto di Ismaele la notte prima della partenza del Pequod sia a ragionare sulle suggestive proposte di un critico come David Shields o sulla tragedia di Ofelia, che, a parlare è ancora Cacciari, “deve cadere proprio per mostrare l’incommensurabile miseria del mondo rispetto alla sua misura di amore”. Se, come critico, fossi minimamente capace di essere un Sancho Panza della letteratura (fedele, umile, ma dotato di lucidità comunque sognatrice) credo che sarei enormemente soddisfatto del piccolo contributo che avrò potuto dare a questa generazione TQ.
2 commenti:
Per chiederti se ho capito quello che scrivi cerco di essere riduzionista: dunque proponi di surfare i "nuovi" media ma con l'occhio rivolto verso l'interno, cercando gli "a priori" di una nuova moralità, senza pensare alla politica e alla società civile'?
ame
usare i nuovi media senza pregiudizi, sì, lavorando su se stessi per trovare quegli a priori morali che poi diventano - con naturalezza e senza costrizioni - atti che influiscono sulla società e sulla politica. Sono profondamente convinto che, rifiutando la coercizione, questo sia l'unico modo per cambiare (la letteratura, la classe intelletuale, la politica, il mondo... scegli tu il sostantivo). Solo Kant (insieme a Wittgenstein) ci può salvare ;)
Leo
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