Non credete a quello che vi possono
dire su David Foster Wallace, tanto i suoi fanatici ammiratori
quanto i suoi tenaci detrattori (tra i più recenti c'è il pur un
tempo leggendario Bret Easton Ellis). Se volete credere a
qualcosa su di lui c'è un solo modo: leggerlo. Con attenzione, a
volte con fatica, pressoché sempre con una resa emotiva ed
estetica fuori dal comune. La sensazione prendendo in mano - e
affondandoci - Il Re pallido, l'attesissimo romanzo postumo che
Einaudi ha pubblicato nella collana Stile Libero (perché non un
Supercorallo, ci viene da chiedere) è quella di essere davanti
alla manifestazione della stupefacente maturità di uno scrittore.
Una manifestazione talmente clamorosa che DFW, perennemente
convinto di non essere abbastanza ben attrezzato (come ha
sottolineato Sandro Veronesi in uno splendido pezzo su La
Repubblica), ha dovuto camuffare sotto un'apparenza di grigiore e
noia. Scegliendo come ambientazione l'ufficio dell'Agenzia delle
entrate di Peoria, Illinois e come tema principale del libro la
noia. Ma il camuffamento resiste solo all'approccio superficiale
al romanzo, come se fosse una sovracoperta ingannatrice, una
volta levata la quale ci si trova immersi fino al collo (e
talvolta anche di più, con il rischio concreto di affogare)
dentro il talento scomodo di quello che sempre più appare lo
scrittore più importante - e per questo anche solitario, pur
nella folla di chi da lui ha tratto ispirazione - degli ultimi
anni.
Parlare ancora del suo suicidio non è neppure interessante, ma non si può fare a meno di percepire, in modo epidermico, quasi fosse un'orticaria, il senso di perdita che la scelta di Foster Wallace ha lasciato nei lettori, una perdita che più che umana è letteraria, figlia della poderosa padronanza della materia che anche un romanzo incompiuto e frammentario come Il Re pallido riesce a trasmettere con la stessa evidenza - solo apparentemente offuscata - delle grandi tele di Mark Rothko. E i temi di cui si parla sono universali, sebbene la fotografia scattata da DFW, a una risoluzione inimmaginabile, da esprimere con le potenze di 10, sia sostanzialmente quella dell'America contemporanea, né più né meno. Come aveva fatto, mirabilmente, già nella sua prima grande raccolta di racconti (La ragazza dai capelli strani), David Foster Wallace anche qui applica il suo microscopio elettronico morale - nel senso più ampio e neutro del termine - alla società americana, arrivando a un iperrealismo che confina pericolosamente con la visionarietà. Qui sta, in buona sostanza, la grandezza del libro, che - e questo è il grande merito dell'editor Michael Pietsch che lo ha assemblato partendo dalle circa tremila pagine che DFW aveva lasciato ("nascoste in piena luce" verrebbe da dire parafrasando lo stesso scrittore) sul proprio tavolo di lavoro, in garage (e non è questo il luogo per ricordare una volta di più quanta della creatività americana è nata in un garage...) - pur nella sua struttura sconnessa si contraddistingue anche per un grande sostanziale compattezza nella forma romanzesca.
Il Re pallido, cronaca senza una vera trama della vita di un gruppo di impiegati del fisco tra cui anche un David Wallace che asserisce di essere l'autore del libro, è un oggetto distante, abbacinante, affettuoso. Un nuovo, per usare la perfetta espressione di Zadie Smith, dono difficile di DFW. Ma anche un'esperienza letteraria che ci restituisce uno stupore (e una paura, una rabbia, un divertimento...) che tanti romanzi non sembrano più in grado di suscitare, così intenti a focalizzarsi, di volta in volta, su uno specifico obiettivo (intrattenere, scandalizzare, vendere...). Qui siamo invece nel cuore del Maelstrom di un caos solo apparentemente calmo, in realtà del tutto incandescente (ricordate Rothko, poco sopra?) e intimamente connesso alla vita di ogni lettore. Gli stravaganti impiegati del fisco siamo noi, lo siamo terribilmente, lo siamo irrimediabilmente. E il primo di tutti è proprio quel David Wallace dalla faccia butterata che mai si pone fuori da questo girone grottesco-infernale, che mai giudica, che mai dimentica che solo la com-passione è il segreto della nostra sfiancata umanità.
Parlare ancora del suo suicidio non è neppure interessante, ma non si può fare a meno di percepire, in modo epidermico, quasi fosse un'orticaria, il senso di perdita che la scelta di Foster Wallace ha lasciato nei lettori, una perdita che più che umana è letteraria, figlia della poderosa padronanza della materia che anche un romanzo incompiuto e frammentario come Il Re pallido riesce a trasmettere con la stessa evidenza - solo apparentemente offuscata - delle grandi tele di Mark Rothko. E i temi di cui si parla sono universali, sebbene la fotografia scattata da DFW, a una risoluzione inimmaginabile, da esprimere con le potenze di 10, sia sostanzialmente quella dell'America contemporanea, né più né meno. Come aveva fatto, mirabilmente, già nella sua prima grande raccolta di racconti (La ragazza dai capelli strani), David Foster Wallace anche qui applica il suo microscopio elettronico morale - nel senso più ampio e neutro del termine - alla società americana, arrivando a un iperrealismo che confina pericolosamente con la visionarietà. Qui sta, in buona sostanza, la grandezza del libro, che - e questo è il grande merito dell'editor Michael Pietsch che lo ha assemblato partendo dalle circa tremila pagine che DFW aveva lasciato ("nascoste in piena luce" verrebbe da dire parafrasando lo stesso scrittore) sul proprio tavolo di lavoro, in garage (e non è questo il luogo per ricordare una volta di più quanta della creatività americana è nata in un garage...) - pur nella sua struttura sconnessa si contraddistingue anche per un grande sostanziale compattezza nella forma romanzesca.
Il Re pallido, cronaca senza una vera trama della vita di un gruppo di impiegati del fisco tra cui anche un David Wallace che asserisce di essere l'autore del libro, è un oggetto distante, abbacinante, affettuoso. Un nuovo, per usare la perfetta espressione di Zadie Smith, dono difficile di DFW. Ma anche un'esperienza letteraria che ci restituisce uno stupore (e una paura, una rabbia, un divertimento...) che tanti romanzi non sembrano più in grado di suscitare, così intenti a focalizzarsi, di volta in volta, su uno specifico obiettivo (intrattenere, scandalizzare, vendere...). Qui siamo invece nel cuore del Maelstrom di un caos solo apparentemente calmo, in realtà del tutto incandescente (ricordate Rothko, poco sopra?) e intimamente connesso alla vita di ogni lettore. Gli stravaganti impiegati del fisco siamo noi, lo siamo terribilmente, lo siamo irrimediabilmente. E il primo di tutti è proprio quel David Wallace dalla faccia butterata che mai si pone fuori da questo girone grottesco-infernale, che mai giudica, che mai dimentica che solo la com-passione è il segreto della nostra sfiancata umanità.
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