Il Pulitzer, ben più del Nobel, è un premio che molto spesso
viene assegnato a opere di grande qualità. Basti pensare, negli ultimi anni,
agli straordinari Pastorale americana di Philip Roth (1998) , Le fantastiche
avventure di Kavalier e Clay di Michael Chabon (2001) e Middlesex di Jeffrey
Eugenides (2003). Resta un mistero come Richard Russo nel 2002 abbia potuto
battere il Franzen de Le correzioni, ma forse era necessario per evitare che
lo schivo Jonathan venisse immediatamente beatificato. Non fa eccezione, nel
panorama delle scelte azzeccate, il premio 2011, assegnato allo splendido
romanzo di Jennifer Egan Il tempo è un bastardo, pubblicato in Italia da
Minimum Fax sotto l’appassionata supervisione di Martina Testa.
Il libro è, apparentemente, composto di racconti distinti,
uniti dalle storie de personaggi che vi ricorrono. Il tempo – vero cuore
pulsante di tutto il romanzo e delle riflessioni della Egan – si muove
attraverso le pagine con andamento quantistico, restituendo quel meraviglioso
senso di disconnessione (e al tempo stesso coerenza assoluta, quasi mistica)
che il pubblico globale ha imparato a conoscere dai tempi di Pulp Fiction (e
una piccola citazione per Babel di Alejandro Gonzalez Inarritu è doverosa).
Le pagine di Jennifer Egan, però, hanno un potere evocativo e sentimentale che
le rende, se possibile, ancora più vivide rispetto al cinema e hanno la forza letteraria
di restituire quel senso del tempo che si potrebbe definire tolstojano (e che
il grande russo ha mirabilmente reso attraverso i suoi romanzi fluviali). Il
punto, però, è che Egan restituisce questa sensazione sfruttando la brevità, e
i suoi flashforward (si veda il capitolo forse in assoluto più bello, ma è
difficile dirlo con sicurezza, che è il numero 4, Safari) sono come un treno
in piena corsa che travolge il lettore e lo lascia completamente in balia della
magia del romanzo. E con la sensazione che il tempo sia in fondo il genio
ultimo della nostra vita, la vera grandezza incommensurabile con cui la misura
dell’umano deve confrontarsi e, come ci ricorda il titolo, essere sempre
sconfitto, almeno apparentemente. Ma quando un romanzo riesce ad analizzarlo in
profondità (e leggerezza), come fa Egan, ecco che, almeno per un poco, si ha la
sensazione che in qualche modo la sconfitta possa essere ribaltata in una,
seppur parziale, vittoria.
Il romanzo ruota intorno a due personaggi principali: l’ex
musicista e discografico di successo Bennie Salazar e la sua assistente Sasha.
Accanto a loro si muove una pletora di altri personaggi che sono la vera
ricchezza del libro, anche per le situazioni imprevedibili che li
contraddistinguono. “Io stessa – ha detto Jennifer Egan a Martina Testa – non
ho idea di cosa succederà ai miei personaggi mentre ne scrivo. Cerco le mosse
istintive, spiazzanti: quelle che non ti aspetti. E’ questo che mi diverte,
quando scrivo. Tutto il mio processo di scrittura mira a rendere possibili
queste sorprese”. E Cathleen Schine è molto acuta quando nota che si tratta di
“una commovente saga umanistica, un’enorme epopea ottocentesca magistralmente
travestita da ironico pastiche postmoderno”. E quando una scrittrice riesce a
commuoverci anche con una serie di grafici (capitolo 12, ambientato nel futuro,
guardatelo), capiamo che siamo di fronte a qualcosa che ha una forza fuori dal
comune, ed Egan dimostra di avere capito e digerito, con condimento di ironia,
la lezione della grande letteratura contemporanea. Così questo 2011 si chiude
con un romanzo che entra di diritto tra le cose migliori apparse in Italia in
tutto l’anno.
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