14 marzo 2012

L’inchino di Dejan ovvero la fine di qualcosa

Quando, alla fine di una partita difficile da definire, Dejan Stankovic, appena eliminato insieme all’Inter dalla Champions League che due anni prima li aveva visti magnifici trionfatori, si è avvicinato al settore verde di San Siro e ha fatto prima un gesto di impotenza con le mani aperte e quindi si è inchinato, ho capito che, rubando un titolo a Hemingway, stavo assistendo a La fine di qualcosa. Qualcosa che era cominciato, almeno per me, nella primavera del 2006 mentre andavo a piedi dal confine con il Portogallo verso Santiago di Compostela e mi facevo crescere una barba che – con l’eccezione proprio della notte di Madrid del 2010 – non avrei più tagliato. Qualcosa che era arrivato con una telefonata, che al momento non avevo capito, di mio papà che mi parlava di intercettazioni pesantissime su Moggi. Qualcosa che ha preso una forma reale in un pomeriggio di Siena del 2007, nei piedi ruvidi di Marco Materazzi e che è culminato, più che in finale, nell’incredibile doppia sfida con il Barcellona di Guardiola, Messi e Ibrahimovic. A San Siro, in quel 3-1 pazzesco, c’ero, come tanti. E c’ero anche nella vittoria-sconfitta con il Marsiglia, una partita dolorosa, ma che in qualche modo ha assunto una piega per la quale è stato importante (nel senso in cui il Mereghetti usa l’aggettivo per parlare dei primi film di Wenders, “più importanti che belli”) esserci.

Insomma, in uno stadio che era caricato a mille, tanto in positivo quanto in negativo [1], è successo che, con grande eleganza sia da parte della squadra, sia, bisogna dirlo, del pubblico che fino a poco prima schiumava dalla bocca, la grande Inter degli ultimi anni ha formalmente abdicato, scusandosi con i tifosi. Non è stato un momento felice, però è stato un momento importante, nel quale abbiamo visto degli uomini, uno su tutti Dejan Stankovic, che hanno smesso per un attimo la maschera del campione-divo-acclamato-dalle-folle, per indossare l’ingrato abito di chi ammette una sconfitta e si fa una ragione di un periodo che ha queste e non altre caratteristiche o fortune (il che non vuol dire rinunciare a combattere, solo avere l’onestà intellettuale di accettare che è andata male, ex post). Lo abbiamo applaudito [2], con sincerità, ma anche con la triste sensazione che fossero applausi definitivi e non ripetibili, come quelli che si riservano all’attore che, ormai ottuagenario, riceve finalmente l’Oscar alla carriera che fino ad allora gli era stato incomprensibilmente negato… Ed esserci, con tutta l’amarezza del caso, è stato utile e forse anche istruttivo. Aspettando una nuova Grande Inter a partire da domani.


[1] Tornando a San Siro dopo tanto tempo, praticamente un anno, sono rimasto sorpreso e turbato dalla folla. Mi spiego, per uno come me - vagamente istruito, vagamente progressista, tendenzialmente amante delle minoranze e dell’ironia, abituato a frequentare più o meno persone dello stesso tipo, in una sorta di ghetto professional-sociale-umano – il confronto con la massa dello stadio è un bagno di realtà, un frontale con il mondo vero, con il suo fascino e le sue asperità (quel mondo che io ho incontrato solo qui a San Siro e alla visita militare).  E di asperità nell’aria se ne percepivano parecchie. Faccio solo un esempio di un dialogo a cui ho assistito poco prima dell’inizio della partita al primo anello verde, settore 138: un corpulento tifoso si avvicina a un signore seduto accanto a mio padre e dice "Questo è il mio posto”. Quello risponde, più o meno, non me ne frega niente ci sono tanti posti mettiti da un’altra parte. Ovvio che il corpulento ha ragione e il vicino ha torto. Superato un attimo di sconcerto volano le prime parole grosse, ma non grossissime. Nessuno dei due desiste, finché il corpulento mette una mano sul volto dell’abusivo e, con occhi da psicopatico, sibila a pochi centimetri dalla faccia dell’altro: “Stai calmino, che io ti ammazzo, io ti ammazzo”. Mentre cerco di tenere mio padre fuori dalla discussione (“Lascia perdere tu non c’entri niente” gli dico cercando di sottrarlo dalle grinfie del corpulento, ai miei occhi ormai rinominato lo psicopatico, che comunque per fortuna di mio papà non si è neppure accorto, talmente era concentrato sulla sua reazione inopinata), mi rendo conto che ci sono molti modi di avere ragione e quello cui stavo assistendo era, quantomeno, originale. A dimostrazione, una volta di più, che le opinioni nette sono una cosa scivolosa, e che dubitare è una pratica tendenzialmente sana, ma poco praticata nel mondo vero.

[2] Ben sapendo, noi che abbiamo vissuto la vertigine-Mourinho, che è giusto applaudire anche dopo le sconfitte, ma che farlo senza vincere mai è in fondo una forma di autolesionismo e applaudire dopo una vittoria è davvero un’altra cosa, sono due mondi diversi e inconciliabili. 

05 marzo 2012

Un Philip Roth d’annata: torna “Goodbye, Columbus”

Era da anni che mancava nelle librerie italiane e oggi la nuova edizione di Goodbye, Columbus di Philip Roth che esce nei Supercoralli Einaudi rappresenta un’opportunità unica per conoscere una parte decisiva della produzione di uno scrittore che, nonostante l’indifferenza dell’Accademia di Svezia, è nei fatti uno degli autori viventi più importanti in assoluto. Il libro, uscito negli Stati Uniti nel 1959, ha infatti segnato il debutto di Roth nel mondo delle lettere e nel 1960 ha ottenuto il National Book Award, insieme e forse più del Pulitzer, il più importante premio letterario americano. Si tratta di una lunga novella, che dà il titolo al libro, cui si aggiungono altri cinque racconti più brevi, che sono vere e proprie perle del talento rothiano,  tenute celate ai suoi molti lettori italiani per troppo tempo. Perché in queste pagine scorrono sia il fluido magico del grande narratore sia l’intelligenza affilata e irriverente del miglior Philip Roth, che come disse Saul Bellow (e come diligentemente la quarta di copertina ci ricorda), “a differenza di quelli fra noi che vengono al mondo ululando, ciechi e nudi, Mr. Roth è comparso con unghie, denti e capelli, sapendo già parlare. È abile, arguto, pieno d'energia, ed esegue la sua partitura da virtuoso”.

Il giudizio di Bellow, in qualche modo fratello maggiore di Roth a cui nonostante una pubblicistica talvolta controversa fu legato a lungo da affetto e stima reciproca, è perfettamente calzante ai racconti di Goodbye, Columbus. Philip Roth, all’epoca non ancora trentenne, ha una sua voce molto bene finita, che emerge sì nel racconto più lungo - già proiettato verso i temi futuri dello scrittore, sebbene con una sensibilità che risente del periodo storico in cui fu scritto – ma che esplode in maniera clamorosa nei testi più brevi, veri e propri gioielli di costruzione e finezza, sorprendenti se si pensa che si trattava di un esordiente. “La conversione degli ebrei” è quello che non è azzardato definire un piccolo capolavoro, con il giovane protagonista Ozzie che, in polemica con un manesco e iracondo rabbino, fugge sul tetto della scuola e, involontariamente, si trasforma in un potenziale – per gli altri – suicida. E da questa posizione trae una sua identità: “Il ladro si riempie le tasche di soldi e se la svigna – scrive Roth -. Lo sposo firma per due il registro dell’albergo. E il ragazzo sul tetto trova una strada piena di gente che guarda in su, alzando il viso e piegando il collo all’indietro, come se fosse il soffitto del Planetario Hayden. All’improvviso capisci che sei tu”. Meraviglioso.

Notevoli anche gli altri testi, che pur nella brevità riescono a imprimere nella memoria del lettore personaggi come, per esempio, il sergente Marx e il soldato Grossbart di Difensore della fede, curiosa incursione di Roth nel racconto di guerra (ci si tornerà poi, sul tema bellico, nei romanzi dell’ultima maturità dello scrittore, con tutt’altra attitudine). La verità, in fondo a questo libro, è che qui si può scoprire chi era Philip Roth prima del clamoroso successo (e delle clamorose polemiche) seguite al Lamento di Portnoy, ossia del libro che nell’immaginario collettivo segna in maniera indelebile la produzione rothiana e, in qualche modo, condanna lo scrittore a una categorizzazione che è ovviamente inadeguata per il suo genio, ma che altrettanto ovviamente è pressoché impossibile da estirpare. Ci vorranno i grandi romanzi degli anni Novanta (Pastorale Americana, La macchia umana e soprattutto il grande capolavoro falstaffiano Il Teatro di Sabbath) per completare il prisma Philip Roth, complesso e sfaccettato al di là delle semplificazioni più o meno efficaci. E oggi con il tassello di Goodbye, Columbus questo notevolissimo universo letterario si arricchisce di un altro, decisivo, elemento.


LA VIDEORECENSIONE