Era da anni che mancava nelle librerie italiane e oggi la
nuova edizione di Goodbye, Columbus di Philip Roth che esce nei Supercoralli
Einaudi rappresenta un’opportunità unica per conoscere una parte decisiva della
produzione di uno scrittore che, nonostante l’indifferenza dell’Accademia di
Svezia, è nei fatti uno degli autori viventi più importanti in assoluto. Il
libro, uscito negli Stati Uniti nel 1959, ha infatti segnato il debutto di Roth nel
mondo delle lettere e nel 1960
ha ottenuto il National Book Award, insieme e forse più
del Pulitzer, il più importante premio letterario americano. Si tratta di una
lunga novella, che dà il titolo al libro, cui si aggiungono altri cinque
racconti più brevi, che sono vere e proprie perle del talento rothiano, tenute celate ai suoi molti lettori italiani
per troppo tempo. Perché in queste pagine scorrono sia il fluido magico del
grande narratore sia l’intelligenza affilata e irriverente del miglior Philip
Roth, che come disse Saul Bellow (e come diligentemente la quarta di copertina
ci ricorda), “a differenza di quelli fra noi che
vengono al mondo ululando, ciechi e nudi, Mr. Roth è comparso con unghie, denti
e capelli, sapendo già parlare. È abile, arguto, pieno d'energia, ed esegue la
sua partitura da virtuoso”.
Il giudizio di Bellow, in
qualche modo fratello maggiore di Roth a cui nonostante una pubblicistica
talvolta controversa fu legato a lungo da affetto e stima reciproca, è
perfettamente calzante ai racconti di Goodbye, Columbus. Philip Roth,
all’epoca non ancora trentenne, ha una sua voce molto bene finita, che emerge
sì nel racconto più lungo - già proiettato verso i temi futuri dello scrittore,
sebbene con una sensibilità che risente del periodo storico in cui fu scritto –
ma che esplode in maniera clamorosa nei testi più brevi, veri e propri gioielli
di costruzione e finezza, sorprendenti se si pensa che si trattava di un esordiente.
“La conversione degli ebrei” è quello che non è azzardato definire un piccolo
capolavoro, con il giovane protagonista Ozzie che, in polemica con un manesco e
iracondo rabbino, fugge sul tetto della scuola e, involontariamente, si
trasforma in un potenziale – per gli altri – suicida. E da questa posizione
trae una sua identità: “Il ladro si riempie le tasche di soldi e se la svigna –
scrive Roth -. Lo sposo firma per due il registro dell’albergo. E il ragazzo
sul tetto trova una strada piena di gente che guarda in su, alzando il viso e
piegando il collo all’indietro, come se fosse il soffitto del Planetario
Hayden. All’improvviso capisci che sei tu”. Meraviglioso.
Notevoli anche gli altri
testi, che pur nella brevità riescono a imprimere nella memoria del lettore
personaggi come, per esempio, il sergente Marx e il soldato Grossbart di Difensore della fede, curiosa incursione di Roth nel racconto di guerra (ci
si tornerà poi, sul tema bellico, nei romanzi dell’ultima maturità dello
scrittore, con tutt’altra attitudine). La verità, in fondo a questo libro, è
che qui si può scoprire chi era Philip Roth prima del clamoroso successo (e
delle clamorose polemiche) seguite al Lamento di Portnoy, ossia del libro che
nell’immaginario collettivo segna in maniera indelebile la produzione rothiana
e, in qualche modo, condanna lo scrittore a una categorizzazione che è
ovviamente inadeguata per il suo genio, ma che altrettanto ovviamente è
pressoché impossibile da estirpare. Ci vorranno i grandi romanzi degli anni Novanta
(Pastorale Americana, La macchia umana e soprattutto il grande capolavoro
falstaffiano Il Teatro di Sabbath) per completare il prisma Philip Roth,
complesso e sfaccettato al di là delle semplificazioni più o meno efficaci. E
oggi con il tassello di Goodbye, Columbus questo notevolissimo universo
letterario si arricchisce di un altro, decisivo, elemento.
LA VIDEORECENSIONE
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