Quando, alla fine di una partita difficile da definire,
Dejan Stankovic, appena eliminato insieme all’Inter dalla Champions League che
due anni prima li aveva visti magnifici trionfatori, si è avvicinato al settore
verde di San Siro e ha fatto prima un gesto di impotenza con le mani aperte e
quindi si è inchinato, ho capito che, rubando un titolo a Hemingway, stavo
assistendo a La fine di qualcosa. Qualcosa che era cominciato, almeno per me,
nella primavera del 2006 mentre andavo a piedi dal confine con il Portogallo
verso Santiago di Compostela e mi facevo crescere una barba che – con
l’eccezione proprio della notte di Madrid del 2010 – non avrei più tagliato.
Qualcosa che era arrivato con una telefonata, che al momento non avevo capito,
di mio papà che mi parlava di intercettazioni pesantissime su Moggi. Qualcosa
che ha preso una forma reale in un pomeriggio di Siena del 2007, nei piedi
ruvidi di Marco Materazzi e che è culminato, più che in finale, nell’incredibile
doppia sfida con il Barcellona di Guardiola, Messi e Ibrahimovic. A San Siro,
in quel 3-1 pazzesco, c’ero, come tanti. E c’ero anche nella vittoria-sconfitta
con il Marsiglia, una partita dolorosa, ma che in qualche modo ha assunto una
piega per la quale è stato importante (nel senso in cui il Mereghetti usa
l’aggettivo per parlare dei primi film di Wenders, “più importanti che belli”)
esserci.
Insomma, in uno stadio che era caricato a mille, tanto in
positivo quanto in negativo [1], è
successo che, con grande eleganza sia da parte della squadra, sia, bisogna
dirlo, del pubblico che fino a poco prima schiumava dalla bocca, la grande Inter degli
ultimi anni ha formalmente abdicato, scusandosi con i tifosi. Non è stato un
momento felice, però è stato un momento importante, nel quale abbiamo visto
degli uomini, uno su tutti Dejan Stankovic, che hanno smesso per un attimo la
maschera del campione-divo-acclamato-dalle-folle, per indossare l’ingrato abito
di chi ammette una sconfitta e si fa una ragione di un periodo che ha queste e
non altre caratteristiche o fortune (il che non vuol dire rinunciare a
combattere, solo avere l’onestà intellettuale di accettare che è andata male,
ex post). Lo abbiamo applaudito [2], con
sincerità, ma anche con la triste sensazione che fossero applausi definitivi e
non ripetibili, come quelli che si riservano all’attore che, ormai
ottuagenario, riceve finalmente l’Oscar alla carriera che fino ad allora gli
era stato incomprensibilmente negato… Ed esserci, con tutta l’amarezza del caso,
è stato utile e forse anche istruttivo. Aspettando una nuova Grande Inter a
partire da domani.
[1] Tornando a San Siro dopo
tanto tempo, praticamente un anno, sono rimasto sorpreso e turbato dalla folla.
Mi spiego, per uno come me - vagamente istruito, vagamente progressista,
tendenzialmente amante delle minoranze e dell’ironia, abituato a frequentare
più o meno persone dello stesso tipo, in una sorta di ghetto
professional-sociale-umano – il confronto con la massa dello stadio è un bagno
di realtà, un frontale con il mondo vero, con il suo fascino e le sue asperità
(quel mondo che io ho incontrato solo qui a San Siro e alla visita
militare). E di asperità nell’aria se ne
percepivano parecchie. Faccio solo un esempio di un dialogo a cui ho assistito
poco prima dell’inizio della partita al primo anello verde, settore 138: un
corpulento tifoso si avvicina a un signore seduto accanto a mio padre e dice "Questo è il mio posto”. Quello risponde, più o meno, non me ne frega niente ci
sono tanti posti mettiti da un’altra parte. Ovvio che il corpulento ha ragione
e il vicino ha torto. Superato un attimo di sconcerto volano le prime parole
grosse, ma non grossissime. Nessuno dei due desiste, finché il corpulento mette
una mano sul volto dell’abusivo e, con occhi da psicopatico, sibila a pochi
centimetri dalla faccia dell’altro: “Stai calmino, che io ti ammazzo, io ti
ammazzo”. Mentre cerco di tenere mio padre fuori dalla discussione (“Lascia
perdere tu non c’entri niente” gli dico cercando di sottrarlo dalle grinfie del
corpulento, ai miei occhi ormai rinominato lo psicopatico, che comunque per
fortuna di mio papà non si è neppure accorto, talmente era concentrato sulla
sua reazione inopinata), mi rendo conto che ci sono molti modi di avere ragione
e quello cui stavo assistendo era, quantomeno, originale. A dimostrazione, una
volta di più, che le opinioni nette sono una cosa scivolosa, e che dubitare è
una pratica tendenzialmente sana, ma poco praticata nel mondo vero.
[2] Ben sapendo, noi che
abbiamo vissuto la vertigine-Mourinho, che è giusto applaudire anche dopo le
sconfitte, ma che farlo senza vincere mai è in fondo una forma di
autolesionismo e applaudire dopo una vittoria è davvero un’altra cosa, sono due
mondi diversi e inconciliabili.
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