30 aprile 2012

L'ultima di Bolaño, lo scrittore venuto dal futuro

“A dire il vero non do molta importanza ai miei libri. Sono molto più interessato ai libri degli altri”. La frase, che affonda in una simile sentenza pronunciata da Borges, è di Roberto Bolaño e merita di essere ricordata per una duplice serie di motivi: la prima perché è piuttosto raro, in quello che potremmo definire il “sistema editoriale”, incontrare autori che danno così poca importanza al proprio ombelico. La seconda è che a pronunciarla è colui che, con libri come I detective selvaggi e 2666, è stato uno dei più importanti innovatori della forma romanzesca, nonché insieme a David Foster Wallace la voce più intensa della nostra contemporaneità (sulla cui prematura scomparsa, così come su quella di DFW, continua a struggersi più di una generazione di lettori). E’ anche per questo che vale la pena prendere in mano il volume di Bolaño L’ultima conversazione, che esce ora in italiano per i tipi di Sur, il marchio editoriale nato da Minimum Fax che vanta probabilmente la più bella veste grafica del momento. Una raccolta di interviste del grande cileno corredate dall’introduzione di Marcela Valdes e, soprattutto da un saggio di Nicola Lagioia che lo elegge ufficialmente “scrittore per il ventunesimo secolo”.

“Poche definizioni – scrive Lagioia – sono calzanti come quella di chi sostiene che alcuni libri di Bolaño sembrano scritti dopo la morte. Per quanto straniante, non saprei trovare un’immagine più efficace. Anche perché, convinto come sono che molti aspetti della letteratura di Bolaño abbisognino ancora di qualche tempo per venire pienamente compresi, alcuni strumenti di misurazione necessari a definirli magari non sono ancora stati brevettati”. Accanto al “disvelamento di misteri attraverso misteri più profondi”, lo scrittore barese sottolinea come Bolaño abbia saputo “convertire la fredda e ubiqua immaterialità del mondo globalizzato in una calda vicenda di uomini e donne, ragazzi e ragazze le cui sconfitte [...] non impediscono loro di intraprendere e anzi di credere in un autentico viaggio esistenziale e addirittura spirituale”. Parole pesanti, che quasi appaiono anacronistiche nella loro bellezza, e che testimoniano quanto sia forte l’eredità di Bolaño, anche per uno dei migliori scrittori italiani in assoluto.

Irriverente e “sopravvissuto”, come si definisce lui stesso,  il cileno più messicano di sempre nelle interviste appare pieno di vita, anche a pochi giorni dalla sua morte. E accanto a frasi come “la biblioteca è la generosità assoluta”, Bolaño confessa che gli sarebbe piaciuto “essere uno scrittore fantastico, come Philip K. Dick, anche se man mano che il tempo passa e invecchio, Dick mi sembra sempre più realista”. Sul mestiere di scrivere poi il suo disincanto è meravigliosamente decadente. Dopo aver detto che avrebbe preferito altri mestieri (il rapinatore, il regista, il gigolò, il “bambino”), Bolaño chiosa: “Sfortunatamente il bambino cresce, il rapinatore viene ucciso, il regista resta al verde, il gigolò si ammala e allora non resta altra scelta che scrivere”. Una scelta che per lui è stata tanto una vocazione quanto una necessità, che molto ha avuto a che fare con l’essere diventato padre (“Se hai messo al mondo un ragazzino, il minimo che puoi fare è sopportare qualsiasi suo insulto”) e che è stato anche il modo di dare forma, e forse contenere, la propria inquietudine anarchica (“Quando vedo che tutti sono d’accordo su qualcosa, quando vedo che tutti lanciano in coro un anatema contro qualcosa, sento un non so che a fior di pelle che mi dà il rigetto”). Quanto ci manchi, Roberto.

10 aprile 2012

Kurt tranquillo, è solo una nostra illusione

"La cosa più importante che ho imparato a Tralfamadore è che quando una persona muore, muore solo in apparenza. Nel passato essa è ancora viva, per cui è molto sciocco che la gente pianga ai suoi funerali. Passato, presente e futuro sono sempre esistiti e sempre esisteranno. I tralfamadoriani possono guardare ai diversi momenti come noi guardiamo a un tratto delle Montagne Rocciose. Possono vedere come siano permanenti i vari momenti, e guardare ogni momento che loro interessi. E' solo una nostra illusione di terrestri quella di credere che a un momento ne segue un altro, come nodi su una corda, e che una volta che un istante è trascorso è trascorso per sempre".

Kurt Vonnegut Jr., Mattatoio n.5
A cinque anni dal momento in cui, per quanto ne possiamo sapere noi, l'ottimo Kurt ha lasciato questo mondo. Ma ovviamente tutto è successo solo in apparenza.


"Se scrivessi qualcosa che non è accaduto veramente, e lo pubblicassi, potrei andare in prigione. E' frode".

Kilgore Trout, 
che rivolge un affettuoso pensiero al suo stramaledetto creatore

10 aprile 2007 - 10 aprile 2012

03 aprile 2012

Felisberto Hernández, un Kafka in Uruguay

Gli slogan da fascetta editoriale sono spesso poco interessanti, moncherini di frasi estrapolate da un
contesto nel quale i loro autori, quasi sempre illustri, li avevano ragionevolmente collocati. E' però doveroso fare un'eccezione per un giudizio di Italo Calvino sull'uruguaiano Felisberto Hernández, che l'autore delle Città invisibili definì a metà degli anni Settanta "uno scrittore che non assomiglia a nessun altro". La frase di Calvino non compare sulla copertina della nuova edizione firmata La Nuova Frontiera, dopo tanti anni dalla scomparsa dalle librerie della prima einaudiana, della raccolta di racconti Nessuno accendeva le lampade di Hernández, ma leggendo questo memorabile e spiazzante libro non si può che concordare con lo slogan calviniano ( e pertanto si deve ammettere che, per questa volta, sarebbe stato molto bene sulla famigerata fascetta. Al suo posto c'è l'altrettanto autorevole Garcia Márquez). O meglio, a qualcuno Felisberto assomiglia, e potremmo dire Franz Kafka (soprattutto in riferimento all'atmosfera di Un medico di campagna) oppure Bruno Schulz (le insuperabili Botteghe color cannella), ma il modo in cui lo fa è talmente originale da confermarci la sensazione di unicità di questi dieci storie brevi.

Pianista e scrittore di culto, Hernández è morto nel 1964 a soli 62 anni, lasciando dietro di sé romanzi e racconti che vantano fidati lettori in Sudamerica, ma che in Italia sono pressoché sconosciuti. Eppure la forza evocativa di Nessuno accendeva le lampade è tale da lasciarci spesso a bocca aperta. Perché ad
apparire sorprendente è la prospettiva dalla quale le storie sono raccontate e i parametri narrativi all'interno dei quali si muovono i personaggi. Il mondo di Hernández è popolato, e il riferimento all'Odradek kafkiano (e borgesiano, nella misura in cui il vate cieco possedeva - nel vero senso della parola - tutta la letteratura) viene quasi automatico, di oggetti che prendono vita, di biologie asimmetriche e alternative, di scenari in cui il sogno (o meglio le immagini di un sogno) e la realtà sono piani interscambiabili, nessuno mai più certo o concreto dell'altro. E pertanto in questo universo in poche pagine una ragazza può innamorarsi del proprio balcone e una maschera teatrale può, neanche fosse un supereroe ante litteram, emettere una luce mostruosa dagli occhi. Il tutto narrato con la naturalezza di uno scrittore abile e consumato quale Felisberto
Hernández indubbiamente era. Perché altrimenti sarebbe stato sconveniente esibire una frase come questa: "Quando uscii dall'osteria vidi un uomo col berretto. Poi ne vidi altri. Allora mi venne in mente che di uomini col berretto ce n'erano dappertutto, ma non avevano niente a che fare con me".

Indimenticabile anche il racconto La donna che mi assomiglia, in cui un narratore umano racconta i propri sogni di cavallo. Dopo le prime tre righe l'uomo scompare, per cedere completamente la scena all'animale, ovviamente senziente. E il cavallo passa da una situazione surreale all'altra, per arrivare alla fine del
racconto a regalarci quella che è forse la più memorabile tra le frasi del libro (a proposito di una fotografia che ritraeva il cavallo e una maestra): "Il motivo per cui mi dispiaceva di più di non essere un uomo era quello di non avere una tasca in cui portarmi via la foto".

Tra le tante suggestioni di queste storie difficili da classificare, ne compaiono anche alcune che potremmo definire in qualche modo fantascientifiche, come nel caso del brevissimo e folgorante racconto Mobilificio El Canario, dove  Hernández ipotizza una forma di pubblicità mentale che non sarebbe
dispiaciuta a Philip Dick. La faccia triste dell'America non ce l'aveva mai mostrata nessuno, neppure un grandissimo come Juan Rulfo, in questo modo. Viva Felisberto!