“A dire il vero non do molta importanza ai miei libri. Sono
molto più interessato ai libri degli altri”. La frase, che affonda in una simile
sentenza pronunciata da Borges, è di Roberto Bolaño e merita di essere
ricordata per una duplice serie di motivi: la prima perché è piuttosto raro, in
quello che potremmo definire il “sistema editoriale”, incontrare autori che
danno così poca importanza al proprio ombelico. La seconda è che a pronunciarla
è colui che, con libri come I detective selvaggi e 2666 , è stato uno dei più
importanti innovatori della forma romanzesca, nonché insieme a David Foster
Wallace la voce più intensa della nostra contemporaneità (sulla cui prematura
scomparsa, così come su quella di DFW, continua a struggersi più di una
generazione di lettori). E’ anche per questo che vale la pena prendere in mano
il volume di Bolaño L’ultima conversazione, che esce ora in italiano per i
tipi di Sur, il marchio editoriale nato da Minimum Fax che vanta probabilmente
la più bella veste grafica del momento. Una raccolta di interviste del grande
cileno corredate dall’introduzione di Marcela Valdes e, soprattutto da un
saggio di Nicola Lagioia che lo elegge ufficialmente “scrittore per il
ventunesimo secolo”.
“Poche definizioni – scrive Lagioia – sono calzanti come
quella di chi sostiene che alcuni libri di Bolaño sembrano scritti dopo la morte. Per quanto
straniante, non saprei trovare un’immagine più efficace. Anche perché, convinto
come sono che molti aspetti della letteratura di Bolaño abbisognino ancora di
qualche tempo per venire pienamente compresi, alcuni strumenti di misurazione
necessari a definirli magari non sono ancora stati brevettati”. Accanto al
“disvelamento di misteri attraverso misteri più profondi”, lo scrittore barese
sottolinea come Bolaño abbia saputo “convertire la fredda e ubiqua
immaterialità del mondo globalizzato in una calda vicenda di uomini e donne,
ragazzi e ragazze le cui sconfitte [...] non impediscono loro di intraprendere e
anzi di credere in un autentico viaggio esistenziale e addirittura spirituale”.
Parole pesanti, che quasi appaiono anacronistiche nella loro bellezza, e che
testimoniano quanto sia forte l’eredità di Bolaño, anche per uno dei migliori
scrittori italiani in assoluto.
Irriverente e “sopravvissuto”, come si definisce lui stesso,
il cileno più messicano di sempre nelle
interviste appare pieno di vita, anche a pochi giorni dalla sua morte. E accanto
a frasi come “la biblioteca è la generosità assoluta”, Bolaño confessa che gli
sarebbe piaciuto “essere uno scrittore fantastico, come Philip K. Dick, anche
se man mano che il tempo passa e invecchio, Dick mi sembra sempre più
realista”. Sul mestiere di scrivere poi il suo disincanto è meravigliosamente
decadente. Dopo aver detto che avrebbe preferito altri mestieri (il rapinatore,
il regista, il gigolò, il “bambino”), Bolaño chiosa: “Sfortunatamente il
bambino cresce, il rapinatore viene ucciso, il regista resta al verde, il
gigolò si ammala e allora non resta altra scelta che scrivere”. Una scelta che
per lui è stata tanto una vocazione quanto una necessità, che molto ha avuto a
che fare con l’essere diventato padre (“Se hai messo al mondo un ragazzino, il
minimo che puoi fare è sopportare qualsiasi suo insulto”) e che è stato anche
il modo di dare forma, e forse contenere, la propria inquietudine anarchica
(“Quando vedo che tutti sono d’accordo su qualcosa, quando vedo che tutti
lanciano in coro un anatema contro qualcosa, sento un non so che a fior di
pelle che mi dà il rigetto”). Quanto ci manchi, Roberto.
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