03 aprile 2012

Felisberto Hernández, un Kafka in Uruguay

Gli slogan da fascetta editoriale sono spesso poco interessanti, moncherini di frasi estrapolate da un
contesto nel quale i loro autori, quasi sempre illustri, li avevano ragionevolmente collocati. E' però doveroso fare un'eccezione per un giudizio di Italo Calvino sull'uruguaiano Felisberto Hernández, che l'autore delle Città invisibili definì a metà degli anni Settanta "uno scrittore che non assomiglia a nessun altro". La frase di Calvino non compare sulla copertina della nuova edizione firmata La Nuova Frontiera, dopo tanti anni dalla scomparsa dalle librerie della prima einaudiana, della raccolta di racconti Nessuno accendeva le lampade di Hernández, ma leggendo questo memorabile e spiazzante libro non si può che concordare con lo slogan calviniano ( e pertanto si deve ammettere che, per questa volta, sarebbe stato molto bene sulla famigerata fascetta. Al suo posto c'è l'altrettanto autorevole Garcia Márquez). O meglio, a qualcuno Felisberto assomiglia, e potremmo dire Franz Kafka (soprattutto in riferimento all'atmosfera di Un medico di campagna) oppure Bruno Schulz (le insuperabili Botteghe color cannella), ma il modo in cui lo fa è talmente originale da confermarci la sensazione di unicità di questi dieci storie brevi.

Pianista e scrittore di culto, Hernández è morto nel 1964 a soli 62 anni, lasciando dietro di sé romanzi e racconti che vantano fidati lettori in Sudamerica, ma che in Italia sono pressoché sconosciuti. Eppure la forza evocativa di Nessuno accendeva le lampade è tale da lasciarci spesso a bocca aperta. Perché ad
apparire sorprendente è la prospettiva dalla quale le storie sono raccontate e i parametri narrativi all'interno dei quali si muovono i personaggi. Il mondo di Hernández è popolato, e il riferimento all'Odradek kafkiano (e borgesiano, nella misura in cui il vate cieco possedeva - nel vero senso della parola - tutta la letteratura) viene quasi automatico, di oggetti che prendono vita, di biologie asimmetriche e alternative, di scenari in cui il sogno (o meglio le immagini di un sogno) e la realtà sono piani interscambiabili, nessuno mai più certo o concreto dell'altro. E pertanto in questo universo in poche pagine una ragazza può innamorarsi del proprio balcone e una maschera teatrale può, neanche fosse un supereroe ante litteram, emettere una luce mostruosa dagli occhi. Il tutto narrato con la naturalezza di uno scrittore abile e consumato quale Felisberto
Hernández indubbiamente era. Perché altrimenti sarebbe stato sconveniente esibire una frase come questa: "Quando uscii dall'osteria vidi un uomo col berretto. Poi ne vidi altri. Allora mi venne in mente che di uomini col berretto ce n'erano dappertutto, ma non avevano niente a che fare con me".

Indimenticabile anche il racconto La donna che mi assomiglia, in cui un narratore umano racconta i propri sogni di cavallo. Dopo le prime tre righe l'uomo scompare, per cedere completamente la scena all'animale, ovviamente senziente. E il cavallo passa da una situazione surreale all'altra, per arrivare alla fine del
racconto a regalarci quella che è forse la più memorabile tra le frasi del libro (a proposito di una fotografia che ritraeva il cavallo e una maestra): "Il motivo per cui mi dispiaceva di più di non essere un uomo era quello di non avere una tasca in cui portarmi via la foto".

Tra le tante suggestioni di queste storie difficili da classificare, ne compaiono anche alcune che potremmo definire in qualche modo fantascientifiche, come nel caso del brevissimo e folgorante racconto Mobilificio El Canario, dove  Hernández ipotizza una forma di pubblicità mentale che non sarebbe
dispiaciuta a Philip Dick. La faccia triste dell'America non ce l'aveva mai mostrata nessuno, neppure un grandissimo come Juan Rulfo, in questo modo. Viva Felisberto!

Nessun commento: