Don DeLillo è un maestro indiscusso della letteratura contemporanea e talvolta, per quanto le classifiche in ambito culturale siano sempre molto aleatorie e poco significative, sembra lo si possa definire senza troppo imbarazzo il più importante scrittore vivente. A riprova di un talento e di una visione che hanno sempre abbracciato il contemporaneo con la forza di un linguaggio spesso incandescente, arriva anche la riscoperta, grazie al coraggioso film di David Cronenberg, del romanzo del 2003 Cosmopolis, edito in Italia da Einaudi. Letto oggi, quando tutte le dinamiche che DeLillo aveva visto già nove anni fa in Europa si sono rese evidenti a tutti a partire, più o meno, dalla crisi economica del 2008, il romanzo incentrato intorno alla figura del giovane miliardario Eric Packer appare a tutti gli effetti un capolavoro, paragonabile, per dimensioni, linguaggio e indagine sulle dinamiche umane, al magnifico, anche se forse sottovalutato, Giocatori del 1977. In quel romanzo, che ha chiarito e definito alla perfezione - tanto a livello di sperimentalismo quanto di comprensione delle mutazioni sociali - che cosa sono stati gli Anni Settanta in America, DeLillo trattava i temi della Borsa e del terrorismo in un modo che prima non era mai stato fatto. Allo stesso modo in Cosmopolis, ecco l'economia immateriale delle bolle tecnologiche e le minacce violente, seppur misteriose e "contro il futuro", che arrivano da movimenti di rivolta di massa.
La figura di Eric, 28enne proprietario di un appartamento di 48 stanze nel grattacielo residenziale più alto del mondo (ma queste piccole informazioni contano solo fino a un certo punto), domina il romanzo, che copre - pertinente riscrittura del modello universale inventato e reso pressoché unico dall'Ulysses di James Joyce - l'intero arco di una giornata vissuta dal protagonista attraversando una metropoli impazzita a bordo di una limousine bianca ipertecnologica e isolata. Ma la vera, e insuperabile, forza del libro è la prosa di DeLillo, che fissa momenti che diventano vere e proprie icone grazie al linguaggio. "Eric - scrive DeLillo - guardava la propria immagine nello schermo ovale sotto la spycam: si stava accarezzando il mento con il pollice. L'auto si fermò e ripartì e lui si accorse, stranamente, di aver portato il pollice al mento un paio di secondi dopo aver visto il gesto sullo schermo". Ecco, il processo inarrestabile che ha portato praticamente tutti gli esseri umani a non poter più fare a meno di appendici tecnologiche (cellulari, tablet, connessioni senza fili, con annessi tic e varie anomalie comportamentali) descritto, con precisione, in poche geniali righe.
Nella grandezza dei dialoghi, stranianti ma di precisione chirurgica, si insinuano frasi assolute come "La vita è troppo contemporanea" oppure "Il futuro è sempre qualcosa di integro e uniforme. Ecco perché il futuro fallisce". E poi, una delle grandi verità "segrete" della storia, cifra tematica probabilmente di tutta l'opera di Don DeLillo: "Nonostante i gas e le percosse, lo shock degli esplosivi, nonostante l'assalto alla banca d'affari, Eric pensò che ci fosse qualcosa di teatrale in quella protesta, di suadente, persino, nei paracadute e negli skateboard, nel topo di polistirolo, nella mossa tattica di riprogrammare la teleborsa con versi e Karl Marx". E' la sublimazione, postmoderna se volte - ma sono sempre etichette semplificatorie - della commedia umana e della violenza rituale che, in base alle epoche, si vota alla celebrazione di ciò che considera sacro. E' il presente, il nostro presente. Come ancora non ce lo avevano descritto.
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