Un romanzo troppo caricato di suggestioni, spunti filosofici, situazioni classiche della storia della letteratura. Questo pare, in ultima analisi Il senso di una fine (Einaudi), l’ultima opera dello scrittore inglese Julian Barnes, accolto da una parte della critica come un capolavoro e premiato con il prestigioso Man Booker Prize 2011. E se le ambizioni e molte delle forme tipiche della grande opera ci sono tutte, a essere meno all’altezza delle attese è proprio la realizzazione del testo, la sua coerenza interna, la sua tensione verso il risultato a cui, almeno apparentemente, ambisce. Franco Cordelli sulla Lettura del Corriere della Sera acutamente (come quasi sempre, va detto) nota il tentativo di Barnes, attraverso il suo narratore Tony Webster, alfiere di una rivendicata medietà, di convincere i lettori di non essere di fronte a un libro “difficile”, ma solo alla storia di una persona come tante altre. Operazione che, cosciente o meno, fa a pugni con tutti gli altri ingredienti della storia che alla fine – e il finale è davvero sconcertante sotto tanti punti di vista, dei quali la “credibilità” della trama è certamente il meno rilevante – si rivela una complessa riflessione sul tempo, sulla memoria e sul modo in cui raccontiamo la nostra vita, in primo luogo a noi stessi (questo forse è il concetto più interessante di tutto l’anomalo monologo di Webster).
Intenti certamente “alti” e meritori, ma che si perdono nel mare (o nel bicchiere, non c’è poi così tanta differenza) di un contenitore letterario, di un oggetto letterario che non riesce a dare un adeguato palcoscenico a queste riflessioni, chissà se per il desiderio di “piacere” il più possibile (e quindi vendere, cosa che è tutt’altro che una colpa) oppure solo per la difficoltà di tenere insieme in una lunghezza comunque contenuta, una serie di tematiche che sono da parecchio tempo al centro della riflessione filosofica occidentale. E così la tragica vicenda del giovane Adrian Finn, uno “troppo intelligente” per sopravvivere, che canonicamente si impicca a 22 anni (quante volte avranno detto la stessa cosa anche per David Foster Wallace, che però non era un personaggio da romanzo) dopo aver gettato alcune sentenze illuminanti sul senso della Storia, somiglia tristemente a un’occasione persa dopo il buon attacco del libro. Tanto da far pensare, più che ai grandi racconti filosofici cari alla letteratura anglosassone, a una riedizione in salsa più intellettualistica di un romanzo come Anime alla deriva di Richard Mason, caso letterario alla fine del secolo scorso ma che la critica ha sempre, e forse ragionevolmente, mostrato nelle sue numerose debolezze.
Sia chiaro, Il senso di una fine, oltre ad avere una bellissima copertina nell’edizione italiana, resta un romanzo quasi sempre godibile, con alcuni momenti brillanti quando Tony Webster rilegge la lettera piena di odio che, da ragazzo, aveva scritto ad Adrian che si era legato alla sua ex, Veronica. Nella sgradevolezza del bonario narratore si vede un barlume di talento e di sprezzatura vera, non mediata, molto interessante. Che però rischia di diluirsi in fretta, sciolta dall’acqua poco più che distillata degli altri snodi chiave del romanzo, cervellotico nel pretendere risposte tanto dal suo protagonista quanto dal lettore su questioni che erano, al netto del testo – unico riferimento possibile – decisamente oscure. Così se i personaggi, Veronica in primis, agiscono in base a sottintesi – ovviamente decisi dall’autore – che si rivelano fondamentalmente inesistenti, viene da pensare che la colpa non sia del carattere complesso (che è un bene) del suo principale personaggio femminile, ma in ultima analisi dell’autore stesso. Che forse ha tentato di dire troppo, senza trovare la giusta forma in cui farlo. E a metà strada tra il bestseller e il capolavoro si rischia di perdersi in una terra di nessuno che ricorda la periferia di Londra dove nel romanzo si svolgono alcune delle scene supposte-chiave della trama.
Intenti certamente “alti” e meritori, ma che si perdono nel mare (o nel bicchiere, non c’è poi così tanta differenza) di un contenitore letterario, di un oggetto letterario che non riesce a dare un adeguato palcoscenico a queste riflessioni, chissà se per il desiderio di “piacere” il più possibile (e quindi vendere, cosa che è tutt’altro che una colpa) oppure solo per la difficoltà di tenere insieme in una lunghezza comunque contenuta, una serie di tematiche che sono da parecchio tempo al centro della riflessione filosofica occidentale. E così la tragica vicenda del giovane Adrian Finn, uno “troppo intelligente” per sopravvivere, che canonicamente si impicca a 22 anni (quante volte avranno detto la stessa cosa anche per David Foster Wallace, che però non era un personaggio da romanzo) dopo aver gettato alcune sentenze illuminanti sul senso della Storia, somiglia tristemente a un’occasione persa dopo il buon attacco del libro. Tanto da far pensare, più che ai grandi racconti filosofici cari alla letteratura anglosassone, a una riedizione in salsa più intellettualistica di un romanzo come Anime alla deriva di Richard Mason, caso letterario alla fine del secolo scorso ma che la critica ha sempre, e forse ragionevolmente, mostrato nelle sue numerose debolezze.
Sia chiaro, Il senso di una fine, oltre ad avere una bellissima copertina nell’edizione italiana, resta un romanzo quasi sempre godibile, con alcuni momenti brillanti quando Tony Webster rilegge la lettera piena di odio che, da ragazzo, aveva scritto ad Adrian che si era legato alla sua ex, Veronica. Nella sgradevolezza del bonario narratore si vede un barlume di talento e di sprezzatura vera, non mediata, molto interessante. Che però rischia di diluirsi in fretta, sciolta dall’acqua poco più che distillata degli altri snodi chiave del romanzo, cervellotico nel pretendere risposte tanto dal suo protagonista quanto dal lettore su questioni che erano, al netto del testo – unico riferimento possibile – decisamente oscure. Così se i personaggi, Veronica in primis, agiscono in base a sottintesi – ovviamente decisi dall’autore – che si rivelano fondamentalmente inesistenti, viene da pensare che la colpa non sia del carattere complesso (che è un bene) del suo principale personaggio femminile, ma in ultima analisi dell’autore stesso. Che forse ha tentato di dire troppo, senza trovare la giusta forma in cui farlo. E a metà strada tra il bestseller e il capolavoro si rischia di perdersi in una terra di nessuno che ricorda la periferia di Londra dove nel romanzo si svolgono alcune delle scene supposte-chiave della trama.
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