Fino al deposito bagagli
tutto sembra normale. La solita stazione ferroviaria italiana, con i self bar
dai prezzi stravaganti, lavori in corso in almeno un paio di passaggi
strategici, turisti in shorts e ciabatte indipendentemente dalla stagione. Poi,
non appena oltrepassato il cartello che indica un peraltro invisibile punto di
ristoro, qualcosa cambia e, dietro i vetri brunati si comincia a intravedere
l’altra dimensione, il pianeta, conosciutissimo ma comunque alieno, dove si è
appena sbarcati. Il viaggiatore, punto dalla sorpresa, si volta e si scopre
incapace di digerire la lezione di David Hume sulla risibilità del principio di
causa-effetto, e pertanto si chiede perché uno spazioporto dovrebbe essere camuffato
da stazione ferroviaria. E per un attimo, brevissimo, ma percepito
distintamente, al posto di binari e biglietterie automatiche, tabelloni con gli
orari e facchini abusivi, vede le astronavi e i tunnel spaziotemporali, il
centro di controllo virtuale e, più in fondo, la sagoma di un pianeta gassoso
che troneggia nel cielo. A quel punto, rinfrancato, sa che può uscire dalla
stazione ed esplorare questo strano universo, talmente vero da non poter essere
altro che posticcio. Benvenuti a Venezia, il più strabiliante parco a tema
della Galassia.
La pioggia, sottile ma
insistente. L’aria, afosa e salmastra. Il vaporetto carico all’inverosimile di
turisti che rappresentano un campionario equilibrato della geografia umana del
Pianeta Terra. L’affollamento, al limite dell’isteria, del Canal Grande,
solcato da marinai nervosi e gondolieri in divisa. La costante presenza,
guardinga ma impossibile da non notare, di uomini del Subcontinente indiano,
posti a presidio di quasi tutti i ristoranti con vista sul Canale, pronti,
nelle loro livree bianche e nere, ad accalappiare la prima coppia di Americani
che mostri anche solo un barlume di esitazione nel transitare davanti alla
carta del menu, dove un secondo piatto parte da 25 euro e un dessert ne vale
all’incirca 12. Tutto, compreso il sapore dolciastro di sale e nafta che
comincio a sentire in bocca appena metto piede sull’imbarcazione, e che non mi
lascerà neppure nelle prime ore del viaggio di ritorno, mi rimanda alle
metropoli dell’Estremo oriente, quelle città immaginarie costruite sulla
pressione demografica e sul desiderio di arrivare, con l’idea platonica delle
Torri Petronas (le prime, poi abbondantemente imitate e architettonicamente
travolte da figli e figliasti ai quattro angoli di quel sottomondo che si regge
sul petrolio arabo, la potenza effusiva cinese e il tigrismo di ritorno della
penisola del Siam), a toccare, anzi a superare il cielo, in un tripudio di
vetrocemento e sogni, spesso meravigliosi, talvolta deliranti, da archistar
psicotropa. La parola chiave della mia Venezia oggi, è frenesia. Quella dei
turisti, alla spasmodica ricerca di un altro scorcio da fotografare prima di
cenare in un ristorante dove, precisa compìto il portiere dell’albergo a
quattro stelle, “le ricordo che è necessario indossare un abbigliamento
formale, anche se nel vostro caso mi pare che non ci siano problemi”. Quella
dei commercianti, che si disputano le porzione della calle e lottano contro i
portabandiera globalizzati della contraffazione di secondo livello. Quella
delle guide che, con il sudore che si espande inarginabile anche al giubbino
impermeabile, oltre che alla camicia in seta cruda che portano sotto, e che,
con l’improvvisa comparsa del sole ora somiglia a un amplificatore del calore,
tentano di tenere a bada un gruppo di ottuagenari nordamericani nel quale le
signore si distinguono per l’uso massiccio degli strass e gli uomini si
mostrano sorprendentemente indisciplinati e forse anche un po’ alticci.
Quando mi affaccio sulla Riva
degli Schiavoni, diretto all’Arsenale dove un sociologo di fama mi parlerà,
illuminante, delle fratture dell’attuale modello di sviluppo e della necessità
di ripensare il concetto di limite, citandomi la parabola veneziana dalla
potenza di Lepanto all’attuale palude esistenziale, l’isola di San Giorgio
brilla nel tramonto come una promessa di tranquillità, ovviamente mendace.
Basta pensare alla prospettiva dirompente dell’Ultima cena del Tintoretto, che la Basilica isolana sembra voler
proteggere dall’invasione unna (o forse è il contrario, San Giorgio Maggiore,
mi rendo conto, protegge il mondo da quel dipinto incredibile), che urla
esasperata come un motore tirato due tacche abbondanti oltre la linea rossa
d’allarme che segnala il “fuori giri”. E i suoi apostoli extraterresti (come le
ombre bianche che invadono il mondo nel Trafugamento
del corpo di San Marco dell’Accademia) sono perenni testimoni di una quiete
impossibile e di quella storia sotterranea che si cela, ben protetta ma non
senza falle, nelle pieghe impreviste del quotidiano. E a rompere il tacito
accordo, il patto narrativo tra una città illusoria e i suoi turisti spaventati
– condizione che, per reazione, genera inevitabilmente l’aggressività difensiva
che pulsa in ogni assembramento di almeno due persone dotate di mappa della
città e fotocamera digitale con super zoom – arriva il mostro della Verità, che
ha l’aspetto spaventoso e inconcepibile di una mastodontica nave da crociera
che arranca a due passi dall’Hotel Baglioni. E’ l’astronave madre che attracca
nel cosmodromo, è il razzo Fine del Mondo
di Thomas Pynchon, è il momento clou di qualsiasi film sulla colonizzazione del
pianeta, è l’Apocalisse militarizzata. E sta accadendo ora, qui davanti a me. E
un amico esperto del luogo mi dice che accade quotidianamente, due volte al
giorno, in eterno. Non posso non pensare all’Inferno dei primi grandiosi
racconti di Jonathan Lethem, quello che iniziava nel giardino con dei bambini
seduti intorno a un tavolo e dal quale il dannato periodicamente ritornava,
reiterando ogni volta l’orrore e la pena. Non posso non pensare che ogni parco
divertimenti è il set perfetto per un film dell’orrore nel quale le macchine
gioiose divorano il pubblico in mille modi raccapriccianti. Non posso non
pensare che la ricorsività è una condanna cui non si sfugge, per quanto lontano
si tenti di andare per non sentire più l’odore nauseante di disinfettante misto
a profumo che sprigiona dai ricordi, dal passato e, inevitabilmente, pure dal
futuro. L’odore dei giorni perduti, che a Venezia continuano a fissarci, muti e
pieni di rancore.
A questo punto davanti al
Ponte dei Sospiri cerco di concentrarmi solo sulle due belle ragazze asiatiche
che si scattano fotografie a vicenda, pronte con i loro iPhone a condividerle in tempo quasi reale, e nella naturalezza dei
loro movimenti, nella precisione con cui sanno quello che vogliono fare, nella
ribellione anche estetica all’oppressività del luogo, è la stessa città a
ritrovare un afflato di speranza, quanto basta per scatenare l’orchestrina del
Caffè Florian e riportare tutto, almeno in apparenza, alla normalità di un
tramonto, con Bellini freschi, aperitivi all’aperto, Harry’s Bar e Peggy
Guggenheim, magliette da gondoliere certificate e pizza margherita, in una
delle città più famose della Cintura di Orione. Tutto talmente rassicurante,
adesso, da farmi trascurare il pensiero che prova a suppurare poco dopo, quando
attraverso un ponte su un canale secondario, illuminato solo da un lampione
debole ed esitante. Questi non sono gli ultimi giorni dell’umanità, mi dico, questa
è soltanto Venezia. Dovunque essa sia.
Leonardo Merlini
© Kilgore Magazine
Leonardo Merlini
© Kilgore Magazine